Una donna violentata. L’omertà del villaggio. E la madre del colpevole che si tormenta in una sorta di “Malavoglia” gaelico dal tempo immobile

Sono passati 44 anni da quando la messa in onda del documentario “Processo per stupro” (26 aprile 1979) rivoluzionò la storia della Rai e la percezione della violenza sulle donne. Oggi di processi per stupro, reali o metaforici, il cinema ne celebra in numero sempre crescente, contribuendo a creare una nuova sensibilità in materia. In “Creature di Dio” il processo è appena accennato e lo stupro non si vede, anzi quasi tutto ciò che è decisivo si indovina, com’e nello stile di queste due newyorkesi alla prima regia condivisa dopo vari film fatti scambiandosi i ruoli (foto, montaggio, regia, eccetera).

Il terreno infatti non è giudiziario ma morale. Di più: familiare. Con tutte le complicazioni derivanti dall’ambientazione, un paesino della costa irlandese che vive di pesca e di ostriche. Uno di quei luoghi da cui è difficile andar via ma che non ha molto da offrire se non lavoro duro e solide radici.

In questa specie di “Malavoglia” gaelico (esageriamo), sospeso in un tempo immobile e un poco simbolico (tutto accade oggi? Dieci anni fa? Venti?), un giorno riappare un giovane partito anni prima per l’Australia, Brian (il neodivo e bravissimo Paul Mescal).

 

Accolto con tutto l’amore del mondo da sua madre Aileen (la grande Emily Watson scoperta in “Le onde del destino” di Lars von Trier), Brian nasconde in realtà molti lati in ombra. Lavora sodo ma non disdegna mezzucci e scorciatoie, per la disperazione del padre. E quando una sera al pub incontra la vecchia amica e forse sua ex, Sarah (Aisling Franciosi), succede qualcosa che in paese tutti faranno finta di non capire (tutti i maschi, si intende).

Mentre per sua madre inizia una lenta e torturata presa di coscienza che può evocare “L’accusa” del francese Yvan Attal, con Charlotte Gainsbourg, ma anche il laborioso “Women Talking” della canadese Sarah Polley. Con molte parole in meno, per fortuna, e una regia che anziché estenuarsi dietro al dibattito infinito tra vittime dei loro uomini, come accadeva alle mennonite di “Women Talking”, lascia ai silenzi, alla Natura, alle leggi non scritte di quel microcosmo operoso e pieno di umanità, ma gravato dal peso di una tradizione patriarcale, il compito di fare da giudice e da aula di un tribunale tutto interiore.

Se ne esce convinti a metà. Gli attori sono così bravi, la Natura così prepotente, che a tratti sembra di vedere un film muto cui sono stati aggiunti i dialoghi e il colore. Ma sull’abile «mix di tragedia greca e dramma marittimo» (la formula è dell’Irish Times) plana un vago sospetto di calcolo. Va bene condannare Brian. Ma dargli maggior peso e complessità avrebbe reso più vero e lacerante anche il dramma di sua madre. In sala dal 4 maggio.

Creature di Dio
di Saela Davis e Anna Rose Holmer
Gb-Irlanda, 100'

*****************

AZIONE! E STOP

L’innamorato, l’arabo e la passeggiatrice. È il titolo della commedia più bislacca e divertente dell’anno, opera del francese Alain Guiraudie, sì, proprio l’autore del cupo “Lo sconosciuto del lago”. Un «vaudeville brechtiano» (Le Monde) che frulla in un mix imprevedibile paure e desideri, razzismo e libido, sogno e pregiudizio.

 

Le proteste degli sceneggiatori Usa puntano il dito contro il classico elefante nella stanza. I colossi dello streaming non forniscono dati sull’ascolto dei loro titoli. Così pagano meno diritti d’autore, certo. Ma schivano anche qualsiasi confronto con il mercato dei film in sala. E il loro potere continua a crescere indisturbato.