È stato gangster, criminale, nemico pubblico. Ora l’attore francese interpreta Athos nel film ispirato al romanzo di Dumas. «Uno per tutti, tutti per uno? Sappiamo bene come stanno realmente le cose»

Al cinema è stato tante volte gangster, criminale, persino “Nemico pubblico”. Questa volta Vincent Cassel, 56 anni, porta sul grande schermo un combattente tormentato dai suoi demoni in “I tre moschettieri - D’Artagnan” di Martin Bourboulon, ora in sala. Il suo Athos non è solo il valoroso moschettiere che salva la vita al re (Louis Garrel), è soprattutto un uomo cupo e diffidente.

Una notte confessa al suo nuovo amico D’Artagnan (François Civil) di aver lasciato che impiccassero la sua sposa, rea di aver ucciso un uomo che la violentava, pur di non rinunciare al privilegio del suo titolo. Tutt’altro che un eroe, eppure sostenitore della leggendaria filosofia del “Tutti per uno” basata sulla lealtà al re e sulla fratellanza tra compagni.

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Trova che il tradizionale motto dei Moschettieri “Uno per tutti, tutti per uno” sia ancora attuale?
«Perdoni il cinismo, più che attuale oggi “va di moda”: alla gente piace dichiararsi altruista e dai nobili ideali, ma sappiamo bene come stanno realmente le cose».

Non crede all’esistenza di persone mosse da grandi valori?
«A volerle vedere da vicino e in maniera autentica sono decisamente poche. Il che è già qualcosa: servono a tutti da reminder per tenere alto il dibattito e magari seguire la loro direzione».

Che cosa c’è di nuovo in questi vostri Moschettieri?
«Intanto erano sessant’anni che il film su di loro non vantava una produzione francese: il capolavoro di Dumas è finalmente tornato a casa, nella sua terra di origine. Gli abbiamo restituito una sostanza e un’anima diversa da quella del cinema americano o inglese».

È altrettanto vero che il vostro film segue una serie di predecessori piuttosto illustri, emblematici quasi quanto i personaggi.
«Certo, ma se pensiamo a film come “La maschera di ferro”, per citarne uno che abbiamo amato tutti, va detto che è passato un bel po’ di tempo e oggi i mezzi per raccontare la storia sono più innovativi. Come innovativo è stato l’approccio del regista che ha scelto una narrazione immersiva, buttandoci nel bel mezzo della storia anche visivamente. Le scene d’azione sono girate appositamente per dare a chi guarda la sensazione di trovarsi in mezzo alla mischia, accanto ai moschettieri».

Riusciranno questi moschettieri “reloaded” a battere i supereroi cinematografici che fanno impazzire le nuove generazioni?
«La differenza la fa sempre la storia. Il testo da cui partiamo è denso di sostanza: sin dal suo concepimento il romanzo di Dumas è tutto tranne che vuoto, i suoi personaggi sono incredibili e senza tempo, le dinamiche tra loro molto solide e le battute che pronunciamo interessanti. Mi creda, non sempre succede. La sfida, con così tanta buona materia tra le mani, era renderla spettacolare, almeno quanto i blockbuster che vanno oggi per la maggiore o i grandi prodotti che vediamo sulle piattaforme».

In altre parole, la sfida era rendere spettacolare Dumas con una produzione europea e non hollywoodiana.
«In Europa non abbiamo gli stessi soldi per fare film e “spettacolare” al cinema fa rima con costoso. Per fortuna i produttori lo hanno capito e per questo film hanno investito affinché venisse fuori un prodotto imponente anche a livello visivo. Il risultato? Alta qualità, pubblico entusiasta e film già venduto in tutto il mondo, dall’Italia al mio Brasile (Cassel vive tra Francia e Rio de Janeiro, ndr). A dimostrazione che anche noi europei sappiamo fare blockbuster che nulla hanno da invidiare agli hollywoodiani. È raro, ma non impossibile, per questo ci abbiamo messo la faccia e un impegno non da poco».

È stata dura la preparazione fisica?
«Venendo dal set di “Liaison”, serie tv d’azione in cui correvo tutto il tempo, ero piuttosto preparato. Poi a differenza di D’Artagnan il mio Athos usa armi diverse: non punta sul fisico ma sul cervello, sa che la strategia viene prima dell’affondo con la spada».

I vostri sono moschettieri vulnerabili, che si portano dietro profonde ferite del passato. Trova stimolante contribuire a una nuova narrazione della mascolinità sul grande schermo?
«Sarò sincero, non credo che mostrarsi vulnerabili sia un obiettivo da raggiungere. Non è detto che gli uomini che non esibiscono la loro vulnerabilità non ce l’abbiano. Penso a grandi attori come Lino Ventura, all’apparenza tutt’altro che vulnerabili, eppure bastava guardarli per coglierne i flussi emotivi. A volte essere forti è solo essere capaci di nascondere la propria fragilità».

Come si è trovato a girare in costumi d’epoca, con tanto di cappello piumato?
«Quella sui costumi è una domanda che si pone più spesso alle attrici, ma sono contento di risponderle perché sono fondamentali per qualsiasi attore. Specie in un film come questo, in cui ognuno di noi era associato a un colore. Io ero il lupo grigio, con barba e capelli grigi. All’inizio c’era l’idea di farci avere un look simile a quello dei cowboy, ho chiesto io che restassimo fedeli al look dei moschettieri di allora. È dai costumi che un attore parte a costruire il suo personaggio. E anche un’attrice, perché io mi considero un’attrice».

Al di là delle battute, che cosa pensa della centralità che stanno assumendo sempre di più le donne nel mondo del cinema?
«La storia dei tre moschettieri risale a diversi secoli fa e i personaggi femminili erano fortissimi già sulla carta. Quanto a me, non ho dubbi che siano le donne a governare il mondo».

In questo film però gli eroi sono uomini. Dal cinema al reale, se dovesse indicare il suo eroe quale nome farebbe?
«Premesso che per me è eroe non chi cambia il mondo, ma chi è abbastanza libero e creativo da reinventare ciò che è stato fatto prima di lui, direi Marcello Mastroianni e Robert De Niro. Questo lo dico da attore, da surfista invece dico Bethany Hamilton (la surfista hawaiana senza un braccio, ndr)».

E da cittadino?
«Non ci sono eroi nella politica, o almeno io non ne vedo».