I sacrifici e la gavetta. Il mito di Marlon Brando e Daniel Day-Lewis. Il ruolo di Carmine Di Salvo nella serie tv di culto. Un successo senza precedenti. «Ci hanno paragonato a “Gomorra”, siamo lontani anni luce»

I suoi idoli sono Marlon Brando e Daniel Day-Lewis e spera di diventare come Elio Germano, perché «è un artista di enorme talento che si batte per migliorare le condizioni di chi fa il suo mestiere, prendendosi la responsabilità di certe battaglie». Lo dice convinto Massimiliano Caiazzo, napoletano, classe ‘96, divenuto popolare grazie alla serie dei record di Rai 2 “Mare Fuori”, la cui terza stagione ha ottenuto in un giorno solo 12 milioni di visualizzazioni su Rai Play. Nessuno di loro si aspettava questi risultati, quando hanno messo piede a Sanremo hanno iniziato a sentirne l’emozione: «Sanremo è stato un tornado, ma già alle prove, quando è partita la canzone di “Mare Fuori”, gli occhi ci si sono gonfiati».

 

A chi ha pensato in quel momento?
«A mia madre, a mio padre, ai miei nonni. Erano tutti spaventati che intraprendessi questo percorso, così come lo ero io, ma non mi hanno mai impedito di provare a coronare il mio sogno».

Un sogno che è passato attraverso notevoli sacrifici.
«A 18 anni facevo il pendolare, partivo da Castellammare con il pullman alle 5 di mattina, alle 11 iniziavano i corsi di recitazione a Roma, dove a 19 anni sono riuscito a trasferirmi accordandomi con la direttrice della scuola per fare dei lavori come guardiano, pulitore e tuttofare. In cambio potevo seguire i corsi gratis».

“Mare Fuori” le ha cambiato la vita?
«Mi ha donato consapevolezza e fatto capire che per fare veramente questo mestiere dovevo lavorare in un certo modo. Il primo momento di grande crescita è stato quando il regista Carmine Elia nella prima stagione ci ha destrutturati tutti, per poi ricentrarci. Poi è arrivata la seconda stagione, la terza, siamo cresciuti tutti insieme ai nostri personaggi e abbiamo avuto modo di farci conoscere».

Non era scontato che un progetto corale con storie tutt’altro che spensierate avesse successo. Cosa ha convinto il pubblico?
«I temi affrontati: amore, violenza, umiliazione, rifiuto, abbandono. Ma anche detenzione, reato, rapporto con la legge. Raccontarli attraverso i percorsi di formazione dei ragazzi ha suscitato empatia».

[[ge:rep-locali:espresso:363330208]]

Il merito è anche del vostro lavoro sui personaggi: per interpretare il suo Carmine Di Salvo a chi si è ispirato?
«Vidi al cinema di Nanni Moretti “Il profeta” con Tahar Rahim e mi folgorò. Come anche “Il Ribelle” di Mackenzie. Per costruire Carmine ho lavorato molto sul fondo di guerra su cui cresce dalla prima stagione, che lo porta a fare scelte sbagliate».

Ha avuto modo di parlare con dei detenuti?
«Ho conosciuto detenuti napoletani più piccoli di me al carcere minorile di Nisida nella prima stagione, poi con i ragazzi aiutati dall’Associazione Scugnizzi e Vela. Molti di loro hanno la consapevolezza di avere sbagliato e sono alla ricerca di una seconda possibilità, hanno bisogno di punti di riferimento che li aiutino a trovare una strada per reinserirsi in società».

Nella terza stagione vi vediamo, infatti, impegnati in un laboratorio di pizza in carcere.
«Nutro grande stima per le associazioni napoletane che si dedicano a queste attività. Sono degli eroi».

Quanti Carmine ha conosciuto nella sua vita?
«Per fortuna quelli che ho conosciuto si sono poi raddrizzati. Per interpretare Carmine ho dovuto prima empatizzare senza giudicarlo, capire come i suoi atti sbagliati fossero l’esplosione di tante cose che bollivano dentro».

In questa stagione lo vediamo maturato: ha attraversato il lutto e adesso parla di perdono, di amore e dell’inutilità della vendetta.
«È maturato insieme a me, sa cosa ha passato e cerca di trasmettere agli altri ciò che ha imparato».

[[ge:rep-locali:espresso:387979718]]

La affascinava questa versione anti-machista del criminale?
«“Mare Fuori” non racconta mai il fascino del male. Se parte da lì è solo per smontarlo e smascherarlo: dietro il male c’è un bisogno inascoltato, di amore, protezione, riconoscimento».

Eppure quando uscì la prima stagione vi paragonarono a “Gomorra”.
«Nulla di più lontano: noi raccontiamo le dirette conseguenze della criminalità organizzata, il carcere minorile. E poi la speranza di una vita alternativa. Certo, per raccontare la luce devi raccontare l’ombra, ma i nostri personaggi vanno ben oltre l’etichetta del “camorrista”. Raccontiamo le scelte sbagliate per mettere in luce ben altre cose».

Ormai siete un modello per le nuove generazioni, è qualcosa che vivete con pressione?
«Con spensieratezza. Non è qualcosa che abbiamo cercato, non abbiamo pensato neanche ai messaggi da mandare, per non precludere scelte creative o mutilare un processo artistico. Sul set cerchiamo sempre di non metterci dei limiti e non avere aspettative».

Come ci si protegge da un’ondata di successo improvvisa?
«All’inizio mi sono detto “Wow, figo. Il lavoro funziona”. Non avevo consapevolezza di quello che stava diventando “Mare fuori”, oggi in tutto il Paese riconoscono il nostro lavoro. Io mi ripeto ogni giorno: “Riparti da zero”. Non per azzerare ciò che è stato, ma perché ogni giorno è nuovo, quindi piedi per terra, caffè in mano e la tela davanti ridiventa bianca, così che possa riscoprire un nuovo colore. Ci sono tanti nuovi personaggi ad attendermi».

Ha mai paura di rimanere “intrappolato” in Carmine?
«Ogni tanto la paura mi sfiora. Può succedere, è una serie diventata cult, sappiamo che in Italia spesso veniamo richiamati per gli stessi ruoli, ma penso anche che non ci sia portavoce migliore del proprio lavoro e della diversificazione nelle scelte».

Il 16 marzo la vedremo al cinema nel film “Primo Piano”, nei panni di Ciro. Che tipo è?
«L’esatto opposto di Carmine, un ragazzo che aspira a diventare qualcuno, nasce da un fondo di abbandono e oppressione e ha bisogno di sentirsi importante. Alla fine si trova intrappolato in tutto questo e crolla su se stesso: forse gli sarebbe servito avere un Carmine vicino».

Più avanti la vedremo nella serie Disney + ambientata a Napoli “Uonderbois”, chi interpreterà?
«Un moderno Robin Hood, sulla falsa riga del “monaciello” di Napoli, in un misto di stili all’interno di un urban fantasy. Un’esperienza particolare, totalmente diversa dalle precedenti».