In “Educazione Fisica” l’attore interpreta un uomo arrogante e manipolatore disposto a comprare silenzi, pur di coprire il figlio accusato di stupro di gruppo. «Un messaggio attuale perché parla del mancato rispetto per l’autorità sana»

Quattro genitori vengono convocati dalla preside con urgenza. È successo un fatto gravissimo: una tredicenne è stata aggredita e stuprata da tre compagni, i loro figli. Si apre così il noir “Educazione Fisica” di Stefano Cipani, scritto dai fratelli D’Innocenzo. Nel film Claudio Santamaria, 48 anni, interpreta un personaggio che è il suo esatto opposto: un padre arrogante, abituato a comprare silenzi e verità, a manovrare le persone a suo piacere. Accanto a lui recitano Sergio Rubini, Angela Finocchiaro, Raffaella Rea e, nei panni della preside, Giovanna Mezzogiorno.

 

«I nostri personaggi rappresentano i mostri che gli esseri umani finiscono per diventare quando, di fronte a casi gravissimi, nessuno vuole prendersi la responsabilità», commenta Santamaria, di ritorno dal concerto-evento “A nome loro. Musiche e voci per le vittime di mafia” tenutosi a Selinunte. E intanto è tornato anche sul piccolo schermo, nella seconda stagione della serie Sky Atlantic e Now “Christian”.

 

Parliamo di “Educazione Fisica”. Da padre si è chiesto che cosa avrebbe fatto al posto del suo personaggio?
«Subito, appena finito di leggere la sceneggiatura. Sono convinto che in certe situazioni un figlio vada considerato come un cittadino alla pari degli altri: se gli vogliamo bene davvero, dobbiamo permettergli di espiare la sua colpa. E, attraverso un percorso di rieducazione, salvarsi».

 

Nel film vediamo, invece, genitori che non intendono accettare la realtà, negando fino all’ultimo che i propri figli possano aver commesso uno stupro di gruppo.
«Non accettano il fallimento della loro educazione. Cercano più di salvare loro stessi che i loro figli. Il film è attuale anche perché parla del fatto che da parte dei genitori non c’è più rispetto per l’autorità, quella sana, per chi ha più competenza di loro, come presidi o professori. Non c’è più rispetto per il difficile mestiere dell’insegnamento; i genitori stessi spesso diventano dei bulli. Mi chiedo come sia possibile che, a fronte di un provvedimento di un preside sul proprio figlio, i genitori vadano a protestare, a mettere duramente in discussione le sue decisioni, a minacciarlo addirittura. Eppure succede, purtroppo non solo in questo film».

 

Come succedono i casi di stupro, in cui si colpevolizzano le vittime più che i carnefici.
«Mi ricorda il bellissimo monologo di Franca Rame (“Lo stupro”, ndr) in cui il giudice le chiede: “Ha goduto?”».

 

Dal 1975 a oggi non è cambiato nulla?
«No, lo trovo tristemente ancora attuale. Siamo sempre pronti a dare giudizi superficiali e affrettati, senza un grande rispetto per le vittime. Se pensiamo che alle donne che denunciano una violenza sessuale viene ancora chiesto: “Ma tu com’eri vestita?”. Oppure: “Perché sei uscita a quest’ora da sola?”».

 

Ne avete parlato sul set con Rubini, Finocchiaro, Rea e Mezzogiorno?
«Tantissimo, abbiamo sviscerato l’argomento parlandone a lungo. Ovviamente eravamo tutti d’accordo: se solo qualcuno si fosse azzardato a dire, come insinua il mio personaggio nel film, “se la ragazza non ha urlato vuol dire che ci stava”, lo avremmo cacciato via tutti all’istante».

 

Da padre non entra proprio mai in empatia con chi vuole giustificare suo figlio a ogni costo?
«Assolutamente no. Nel momento in cui nostro figlio fa del male a un’altra persona, noi genitori non possiamo sostituirci a un giudice. Mio figlio come membro della società deve assumersi le sue responsabilità e io come padre devo consentirgli di comprendere davvero ciò che ha fatto, lasciandogli espiare la sua colpa. I genitori del film non lo fanno, il mio addirittura arriva a chiedere il prezzo per comprarsi il silenzio collettivo. Ed è solo uno dei limiti della decenza che lo vediamo abbattere nella sua discesa in un buco nero, che poi è quello della società di oggi di cui il film è specchio. I genitori che non condannano i loro figli, in realtà, li condannano comunque alla menzogna».

 

E all’irresponsabilità. Trova che la responsabilità sia ancora un valore in Italia, dalla politica in giù?
«A me sembra che ci si deresponsabilizzi per tutto. La nostra è una società che non vuole responsabilizzarsi, una società che non vuole invecchiare».

 

I genitori in tutto questo che ruolo hanno?
«Sbagliano quando tendono a essere amici dei figli. La trovo una grossa piaga della nostra società: si tende a fare i giovani, gli amici dei figli, appunto, e all’improvviso ci si ritrova in situazioni assurde, in cui ci si rende conto che non si conoscevano affatto i propri ragazzi. È fuorviante il pensiero che essere amico sia più importante di farsi rispettare. Magari è più facile, ma io da padre non posso non dare dei limiti ai miei figli, anche a costo di risultare antipatico».

 

Lei com’era da ragazzo?
«Un casinaro. Facevo mille cose insieme, tra sport e scuola di doppiaggio e recitazione già a 16 anni, avevo tanti interessi e mi divertivo parecchio. Però, come dicevo, provengo da un altro tipo di educazione: mia madre era molto severa. Oggi si pensa che l’educazione rigida faccia parte dell’epoca dei nostri nonni, invece io trovo che questo sia il periodo in cui non bisogna abbassare la guardia: proprio in virtù di questa apparente libertà che hanno, i nostri figli hanno bisogno di paletti, di sapere che ci sono dei confini che non si possono superare e che non sono ancora pronti a superare».

 

È anche vero che oggi gli adolescenti si ritrovano a vivere in una società piuttosto complicata e inferocita, in cui narcisismo e odio la fanno da padrone.
«Proprio per questo l’attenzione di un genitore deve essere alta, i confini si sono ampliati a dismisura: con uno smartphone i nostri figli ormai possono vedere qualsiasi cosa, immagini di violenza, immagini sessuali, arrivano a conoscere delle cose non per esperienza diretta e troppo presto. È uno strumento che può diventare un’arma, se non controllato adeguatamente da un genitore».