La figura del sopravvissuto ha acquisito una grande importanza solo dagli Ottanta in poi: prima l’Europa preferiva non guardare troppo a quanto successo agli ebrei. E ora le ragioni anagrafiche costringono a interrogarsi

«Anche se volessimo raccontare non saremmo creduti», scriveva Primo Levi. E invece i sopravvissuti, “i salvati”, sono stati creduti. Però, appena finita la guerra e per oltre tre decenni, non c’è stata molta voglia di ascoltarli. Le ragioni di quel rifiuto? La prima: prevaleva comprensibilmente l’urgenza di ricostruire, di vedere il futuro e non guardare il passato. Era un fenomeno comune a tutta l’Europa e al nascente Stato d’Israele. Si volevano rimettere in moto le economie o, nel secondo caso, porre le fondamenta di una nuova patria. Risale a quel periodo il boom delle nascite. Si voleva, lo desideravano pure i reduci dei lager, mettere su famiglie, fare figli, ricominciare a sognare.

 

La seconda ragione dello scarso ascolto è più drammatica. È il senso di colpa di chi non è rimasto fra “i sommersi”, di chi avvertiva nel fondo dell’animo di essere in vita perché gli altri sono morti; e anche di questo ha parlato Levi. La terza ragione, infine, era l’inadeguatezza del racconto. Era difficile testimoniare, perché nessuna parola né immagine erano in grado di rispecchiare la realtà. La Shoah (e qui sta la sua unicità) significava la totale negazione di tutti i valori alla base della civiltà. Il Male diventò Bene e il Bene Male in un rovesciamento del mondo radicalmente nichilista.

 

E tuttavia, a partire dagli anni Ottanta, la figura del testimone diventò centrale perché restituiva l’aura dell’autenticità a un’esperienza altrimenti difficile da assimilare. Vennero fuori migliaia di testi, libri, memoir. Divennero prassi diffusa i viaggi nei luoghi dello sterminio, sono nati musei della Shoah e una serie di rituali civili. Soprattutto grazie alla Fondazione Spielberg, abbiamo circa 50 mila testimonianze registrate dei reduci della Shoah. Materiale prezioso per gli storici.

 

Oggi i testimoni vengono a mancare. E allora come faremo a conservare la memoria? Ovviamente con i riti civili. Ma c’è pure un passaggio generazionale interessante: artisti (di ogni genere) della “terza generazione” — nipoti veri o ideali dei reduci o dei sommersi — che producono opere, dove il passato serve a immaginare l’avvenire. E poi c’è la lezione di Ágnes Heller: la filosofa ammoniva che non basta sentire i testimoni o visitare i luoghi per stare dalla parte giusta. Occorre imparare il sentimento dell’empatia. In apparenza indicava i limiti della testimonianza, in realtà tracciava un sentiero per trasportarla nel futuro.