La riluttanza, il ritorno in tv, la satira. Tra i tanti vizi degli attori e le poche virtù del piccolo schermo. Dialogo a tutto campo con lo showman tra i protagonisti di “Call my agent - Italia”

Un attore rifiuta una dopo l’altra ogni singola proposta della sua agente. È Corrado Guzzanti nella nuova serie “Call my agent - Italia”, disponibile su Sky e Now. Remake del francese “Dix pour cent”, racconta attraverso personaggi di spicco dello spettacolo italiano le storture del settore, prendendone in giro la mitomania, l’insofferenza, l’egocentrismo. «Mi capita davvero di rifiutare diversi progetti», confida a L’Espresso Guzzanti. Vedendolo anche nelle serie “Io sono Lillo” su Prime Video, “I delitti del bar Lume” su Sky Cinema e Now e “Boris 4” su Disney+ non si direbbe: «Oggi sono meno riluttante di qualche anno fa, la pandemia e il lockdown hanno giocato un ruolo importante nel farmi venire voglia di fare di più».

 

Quanto c’è di vero e di suo nel Guzzanti che vediamo in “Call my agent - Italia”?
«Un buon 60 per cento. Con la mia agente discutiamo sempre, contrattiamo come alle bancarelle. Mi capita di rifiutare delle cose, ma ultimamente mi sono anche divertito a partecipare a progetti non miei, facendo più l’attore che l’autore».

 

Alcune battute sembrano sue, come quando dice che farebbe volentieri Pachino Express più che Pechino Express.
«In effetti mi hanno lasciato pericolosamente a briglia sciolta. Abbiamo improvvisato tanto anche con Emanuela Fanelli, che è sempre stata bravissima ed è cresciuta artisticamente. Ci siamo divertiti molto sul set, come anche con Michele di Mauro».

 

Alla fine, nonostante l’infarto, il suo personaggio dovrà fare il film di Luana Percoli, l’improbabile sedicente attrice interpretata da Fanelli. Non c’è modo di sfuggire agli improvvisati oggi?
«È sempre più difficile, anche perché i registi sono diventati abilissimi manipolatori, più bravi a convincerti che non a dirigere».

 

Cosa deve avere un progetto per ottenere il sì di Guzzanti?
«Deve convincermi l’idea e la scrittura, devo intravedere nel personaggio qualcosa che mi faccia venire subito delle idee. Se leggendolo mi si accende la lampadina è un buon segno. Se invece sento che è un personaggio che può fare chiunque, standardizzato, e non ho margini per inventare nulla, allora preferisco non accettarlo».

 

Nella serie vorrebbe fare un film sul sindaco con Ricky Gervais, nella realtà lo farà mai?
«Magari, farei qualunque cosa con Gervais, anche portargli il caffè a tavola».

 

Passiamo a un’altra serie: in “Sono Lillo” su Prime Video interpreta un artista tedesco e dice a Lillo che dovrebbe chiamarsi Scusaman, perché la tv brutta rovina la civiltà moderna. Lo pensa davvero?
«È una questione di dosi: un po’ di tv brutta va bene, basta non intossicarsi. La tv senza rispetto per lo spettatore esiste da sempre: è una tv cinica, sciatta, pigra, chi ci lavora timbra il cartellino. Una tv inerte dal punto di vista delle idee, è la tv dell’abitudine di chi la guarda con la coda dell’occhio mentre fa altro, pensata più come rumore di fondo che come qualcosa da seguire attivamente».

 

Da che dipende la dubbia qualità di questa tv?
«A volte solo dalla fretta. Lo so perché mi sono trovato dall’altra parte, a dover consegnare qualcosa di approssimativo con la scusa del “Tanto poi sul set lo aggiustano”. Per fortuna poi ci sono anche serie bellissime come “The Bad Guy”, ricche di idee che funzionano».

 

Tornando a Lillo, siete amici fraterni ormai, com’è lavorare insieme?
«Lillo mi aveva ha proposto prima un altro personaggio che non mi convinceva, poi questo artista folle tedesco e il rischio di lavorarci insieme è sempre lo stesso: tornare a casa con i crampi per quanto abbiamo riso».

 

Come nel programma comico Lol?
«Quando me l’hanno offerto ho pensato “Buttati, è la terapia del calcio nel sedere”, in quel momento post pandemia ne avevo bisogno. Mi sentivo un marziano all’inizio, poi mi sono lasciato andare anche grazie ai miei amici Maccio Capatonda e Virginia Raffaele».

 

È stato anche un modo per farsi conoscere dalle nuove generazioni.
«Capita che vengano dei ragazzini a chiedermi una foto, non succedeva da un po’, e i genitori che li accompagnano mi raccontano che hanno fatto rivedere a casa video miei di vent’anni fa. È gratificante».

 

Gratificante come girare la quarta stagione di “Boris”?
«Quello è stato commovente, come rincontrare gli amici delle medie. Parlavamo da anni della quarta stagione, tra attori e autori eravamo riluttanti: riaprire la scatola di un cult era pericoloso, io stesso non volevo reinterpretare Mariano».

 

Come l’hanno convinta?
«Con il ricatto morale del “non puoi non esserci”, sentivamo tutti il bisogno di rendere omaggio a Mattia Torre. Abbiamo trovato questa nuova chiave della passione di Mariano per le armi e abbiamo esagerato, infatti hanno tolto tanto, lo avevo fatto persino partecipare all’assalto di Capitol Hill».

 

Nel trionfo del politicamente corretto c’è ancora spazio per una comicità scorretta?
«Poca. Quello che abbiamo fatto vent’anni fa in tv oggi verrebbe, se non censurato, molto criticato. C’è un eccesso isterico e ampiamente ipocrita di controllo. Ricky Gervais continuamente spiega che non è legittimo infuriarsi per la satira e reagire ad ogni cosa che sembri vagamente offensiva. Oggi è difficile dire liberamente ciò che si pensa, ci si ammorbidisce molto anche per ragioni produttive. Penso sia solo una fase: oltre un certo limite tornerà una comicità molto scorretta, come in Inghilterra e negli Stati Uniti».

 

Aspetta quel momento?
«Io trovo sempre il modo, con un po’ di furbizia si riesce comunque a dire quello che si vuole».

 

Che fine ha fatto la satira in Italia?
«È depotenziata, non perché non ci sia gente capace di farla, anzi ci sono autori bravi, ma lo scenario politico è totalmente cambiato rispetto agli anni Novanta. Vedo che i satirici sono costretti a fare un lavoro più sul quotidiano, toccando il politico sulle dichiarazioni del giorno: è una satira da consumare al momento, difficile che resti e si ricordi anni dopo».

 

Sta scrivendo una nuova serie comica. Cosa può anticiparci?
«Sarà una specie di road movie, la storia di una strana fuga».

 

“Fascisti su Marte 2”?
«Magari, lo rifarei. E dire che per anni non ho più voluto rivederlo, già di mio non amo rivedermi, poi dato che per realizzarlo avevo visto ogni cinegiornale dell’epoca ero intossicato dalla materia. Quando l’ho rivisto tempo dopo mi è parso un bel lavoro, mi piacerebbe che ricapitasse. Erano altri tempi, ma ogni cosa può resuscitare in qualche forma. I produttori non ci scommetterebbero sopra come successo commerciale, ma magari qualche produttore particolare potrebbe pensarci. Poi oggi potrei togliere anche Marte dal titolo!».

 

Scusi, perché non ama rivedersi?
«Sono un grande rompiscatole, mi vedo e trovo mille difetti. La mia compagna mi minaccia, quando guardiamo cose mie in tv dice: “Stai zitto, oppure vai via e lo vedo da sola”. Quando passano gli anni da un progetto me lo godo di più, lo riguardo più rilassato. Sarà che per carattere una volta che ho fatto una cosa poi vado avanti».

 

Dove finiscono tutti i personaggi che ha interpretato?
«Li tengo in una casa al mare, parcheggiati, ogni tanto ne richiamo qualcuno. È una “safe house”, come quelle della Cia, non posso rivelare dove si trova».