Caldo rovente. Una stazione di campagna. E una menzogna che torna: “Sei l’unico”. Con una storia di passione e seduzione, prosegue la nostra serie

L’ho riconosciuta subito, mentre scendeva dal treno. Inconfondibile nel passo e nello stile. Quell’eleganza povera solo per chi non ne sa nulla. I colori accesi delle scarpe. Gli accostamenti strambi. L’aria fintamente svagata. La seduttività a ogni costo. Il tradimento nell’anima. Non si cambia mai – mi è venuto da dire. Gli esseri umani sono quel che sono. Si passano vite girando attorno al buco nero dell’infanzia. E hai voglia a frequentare gli esperti della psiche. A che serve? Poi però mi sono accorto che io invece stavolta fingevo di non vederla. E allora forse un po’ si può migliorare – ho detto, prendendomi in giro. Forse qualcosa è possibile. Senonaltro nei casi in cui hai conosciuto a fondo l’abisso del desiderio e sai quando è meglio non sprofondarci. Dicevo così, mentre le cicale dominavano sulla stazione di campagna e un caldo assassino scendeva come una cappa sui binari arroventati. Sì che ero cambiato. Lì sulla banchina, più di quindici anni dopo, ero uno che aveva raffinato l’arte di sollevare lo sguardo e non vedere ciò che non si ha voglia di vedere. Ero un provetto mentitore adesso. Avevo appreso quella maniera di tenere gli occhi puntati nel vuoto che è l’unico modo perché l’altro abbia la percezione di non essere visto. Cantate cicale, fatemi godere – bisbigliavo. E subito mi prendeva un’altra idea. Quella del tutto opposta. Chissà, infatti, se davvero lei mi aveva visto e riconosciuto, come pretendevo. E in quel caso, chissà se aveva realmente creduto alla mia finzione. In realtà, chi è tanto abile nel fingere, generalmente è anche capace di svelare in un attimo la finzione altrui. E allora altro che cicale. Ero io il fallito. E lei dominava ancora incontrastata. Ma no, no, no! Cosa sono questi ridicoli lambiccamenti del cervello? Su, lascia stare – mi sono ripetuto. Eppure le immagini del passato prendevano il sopravvento e intanto cercavo un bar.

Sono passato davanti ai bagni. Bagni a pagamento: così c’era scritto. La stazione, ormai svuotata di biglietterie umane e di addetti ai binari e di giornalai, aveva chiuso anche i cessi. Un mostro di solitudine nell’afa. Solo le cicale. E lei che un giorno comparve nel bagno del ristorante e mi spinse dentro con i suoi occhi trasognati inginocchiandosi. Non era qui. Doveva essere dalle parti di Vejo. Qui non passammo in treno. Ci incontrammo direttamente al mare. Lei aveva detto a suo marito che andava a trovare la cugina. Forse anche adesso andava a trovare la cugina? Forse anche adesso, come sempre, fingeva. «Sei l’unico per me» diceva, e io le credevo. Non le chiedevo nulla. Eravamo in casa e inventava storie per me, storie bambinesche narrate con la voce flautata, cantilenante e mi si stendeva vicino e bisbigliava. «Sei l’unico». Così mi addormentavo. E quando al risveglio aveva una linea sul viso che scompariva appena la guardavo, non pensavo a niente, se non che avesse sonnecchiato male e che desiderasse scendere al mare, dove voleva stendersi nuda, fra gli scogli, e vergognarsi e non vergognarsi, dicendomi che con me stava come con nessuno. Nessuno.

Non c’era più nessuno al bar della stazione. Sprangato. Come tutto. Sono tornato indietro fra le valigie disseminate da chi si era seduto lungo il filo d’ombra aspettando la coincidenza. Ho controllato i monitor. Il binario era ancora incerto. Tre quarti d’ora di attesa. Lei era sparita, per fortuna. Ho attraversato la sala d’attesa in cui due ragazzi stavano accoccolati a baciarsi. Che estate vi aspetta? Dove andrete? Siete felici? Mi sarebbe piaciuto sedermi lì a chiedere loro come avessero passato i giorni prima della partenza: avevano corso in motorino per le vie della città infestata di caldo, senza meta, mangiando l’aria fresca della sera, incontrando amici, dimenticando tutto il resto?

Ero a San Lorenzo, in una di quelle notti estive, quando lei mi richiamò. Era un bar che allora aveva appena aperto, nel giardinetto davanti alle pizzerie di via Tiburtina. La sua voce suonò giocosa, leggera, come se tutto fosse casuale e imprevedibile. Mi diceva che voleva rivedermi: avevo qualcosa da fare? Figuriamoci. Nulla avevo da fare. Non le chiesi del marito. Non le chiesi cosa le avesse fatto cambiare idea e volai da lei. Si era sposata troppo giovane – così pensavo. Non aveva figli. E sarebbe stata con me. Presto o tardi sarebbe stata con me. Ci credevo davvero. Ma non mi interrogavo. Ero soltanto pieno di un fuoco che mi mangiava il corpo. E che mangiava il suo. Lo divorava. E infatti la divorai, appena mi spinse a salir su per la scala oscura nella villa dei genitori. E quando mi avventai rideva e diceva «incredibile, incredibile, sei incredibile». Poi me ne andai nella notte. All’alba anzi. C’erano già le luci di luglio al mattino quando mi svegliò dicendo che dovevo filare. Filare. Ecco proprio così. Ma cosa mi importava delle parole? Era tornata con me, questo era il punto. Per mesi fece così. Andava e veniva. Poi finì davvero.

Nel piazzale davanti alla stazione ciondolavano due tassisti. Ho chiesto il prezzo per il porto. Esorbitante. Sono andato avanti verso la fermata del bus e ho cercato di interpretare i geroglifici dell’orario. Ho concluso che c’era solo il trenino anche se su quel trenino avrei trovato lei e non volevo più vederla, anzi dovevo riuscire a non vederla, a non salutarla, a non domandarle dei figli, a non farmi catturare dal viso sghembo che mi aveva appassionato e che ora – me lo confermavano in molti – era rovinato da quelle punturine a cui ogni donna ricorre, credendo in qualche fantasma dei nostri giorni. Non volevo vederla, non volevo essere deluso, e non volevo desiderarla, non volevo cadere nei suoi occhi sbiaditi che cercavano sempre sesso. Una donna così. Così sublime. Così gretta. Perché c’era solo grettezza in quella lettera che mi scrisse proprio su un treno, per dirmi che no, non ci saremmo visti mai più. Era una lettera piena di riferimenti ambigui e spiegazioni ridicole, incomprensibili, non richieste. Ma non era tanto la lettera il problema. Nessuna dichiarazione di addio è mai geniale a meno che non si limiti a un biglietto o un saluto. Che spiegazioni puoi dare mai? Figuriamoci dopo aver vissuto quello che avevamo vissuto noi. Ma no. La questione fu quando, dopo tutta quella lettera, di nuovo tornò. Fu quasi un anno dopo. Perché per mesi mi fece soffrire come un cane – inutile nasconderlo. Le avevo creduto e ora mi lasciava? Mesi e mesi di vuoto, di malinconia e abbandono. Poi conobbi la sua amica e iniziai a dimenticarla, e allora fu un lampo: eccola di nuovo.

Le immagini del suo ritorno mi passavano davanti agli occhi e improvvisamente mi sono accorto che, dall’altra parte della strada, all’angolo, c’era un bar. L’insegna barcollava fra tavolini vuoti e la desolazione di un tappeto di prato finto, molto verde, molto sporco. Sono entrato. Ho chiesto una bibita fresca e intanto lei la rivedevo sotto alla mia finestra. «Sono qui» aveva detto spiegandomi che non c’erano pericoli perché aveva appena lasciato la cena a cui partecipavano sia il marito che la sua amica. «Non vuoi tradirla? Mica ti vede. È a cena. E comunque non tradisci lei. Tu stai tradendo me» così disse ridendo, poi fece «Solo un momento, dai, lasciami salire, ho poco tempo, non voglio fare nulla con te, non voglio provocarti». E infatti, dopo poco, eravamo a letto e lei teneva la testa rivolta verso il soffitto e diceva «finalmente, finalmente sei tornato» e io sudavo e a un certo punto il telefono suonò, era suo marito e lei mi disse di non spostarmi, solo di fermarmi, rispose al telefono e io la guardavo sconvolto e cercavo di capire se fosse vero o no, perché lei, in un tono gioioso e sereno, sotto di me, senza guardarmi, diceva «Amore, sì scusa, adesso arrivo, ma certo, sì, cosa dici?, sto veramente venendo, ma certo, sono passata a casa come ti avevo detto, sì, e adesso ci sono, quasi ci sono, vengo in un attimo, c’è traffico, sì, nonostante l’ora, c’è traffico, ma fra poco sono lì». Poi attaccò, smise improvvisamente la voce allegra con cui aveva parlato a suo marito in finzioni piene di verità, e si rivolse a me con l’autorità cavernosa carnale autoritaria del sesso, imponendomi di continuare, anzi di finire, «ma per favore non sporcarmi il vestito».

Ho sentito la limonata fredda che mi gorgogliava in gola mentre due voci di ragazzi dietro di me blateravano del mare pieno di gente e di un locale dove erano stati la sera. Poi ho guardato nella vetrina dei panini se qualcosa poteva accompagnarmi nella fine del viaggio e dopo un attimo ho sentito la porta aprirsi. Anche lei aveva cercato un bar e ora stava entrando e dunque stavolta dovevo essere proprio bravo per non lasciarle credere che l’avevo vista. Ho pagato. Mi sono mosso sempre puntando gli occhi lontano da lei, le sono passato accanto e in quel momento lei si voltava e quindi ho potuto finalmente guardarla con calma da dietro. Si era messa di spalle a me verso il muro. Stava ferma, immobile come un ramarro nel sole. Una posa talmente assurda e innaturale – guardava il muro davanti a sé, il muro spoglio, dentro a un bar, solo muro – che ho capito tutto. Lì per lì volevo ridere e darle una pacca sulla spalla. Volevo dirle: «Sara. Mia dolce Sara. Non sei cambiata proprio per niente. Questa è la stessa identica mossa che facesti quando non volevi più sapere nulla di me e non rispondevi al telefono, non leggevi i miei messaggi e io soffrivo e giravo per Roma cercandoti e una sera arrivai a Trastevere e ti vidi, eri tu, e tu capisti che ero io, ma non sapevi affatto che ti avevo riconosciuta fra i ragazzi fuori dalla galleria d’arte e così ti voltasti verso il muro mentre io passavo, ti voltasti proprio come ora, eri una statua rivolta al muro, perché io non ti vedessi, non ti riconoscessi, come se una donna possa essere riconosciuta solo dal volto, come se girandoti tu non ci fossi più, perché quel che non vedevi non c’era. Una scelta così assurda che quella sera neppure ti salutai. Mi mancava il respiro, volevo stringerti, ma neppure ti salutai. Tirai dritto e me ne andai a casa pensando che una donna così non valeva nulla. Però poi, quando mesi dopo tornasti sotto casa mia tradendo sia tuo marito che la tua amica, io ti aprii subito. Adesso no, non ti aprirei più. E non voglio nemmeno vederti e salutarti. E anzi io sono cambiato e ho imparato l’arte della finzione. E tu devi esserci cascata. Perché mi hai visto eccome e adesso speri che io non ti veda. E non sai che sono io a fingere di non vederti. Non hai capito nulla. Gli anni passano per tutti, ma tu continui a essere quella che sei sempre stata».

 

Sono uscito nel caldo atroce e mi sono avviato verso il trenino. Ho preso posto nel primo vagone aspettando la partenza. Difficilmente sarebbe salita lì. Difficilmente avrei dovuto fingere ancora. Ho sentito una porta sbattere. Sul fondo del treno c’era l’antico bagno con la porta metallica. Ho immaginato che salisse ora e mi facesse segno di seguirla. Allora molto probabilmente sarei andato.