Il giornalista di Libero con “Vitalia” si immerge nei boschi alla ricerca delle origini del sacro. Perché ogni tanto bisogna pur prendersi una pausa dalla dura vita dei talk show

È importante diffondere messaggi rassicuranti in questi tempi complicati. Per cui, se nella tarda serata del venerdì, vi fosse sembrato di scorgere una versione sui generis di Alessandro Giuli, sdraiato in un verde prato con uno zufolo in mano, niente paura: è veramente andato in onda.

 

Quello che può sembrare a una visione distratta solo il frutto di una esperienza psichedelica, è invece il ritorno di “Vitalia, alle origini della festa” (Rai Due), in cui il giornalista di Libero, abituale ospite della destra illuminata in talk show di vario genere e numero, evidentemente stanco di essere chiamato a esprimersi con garbo e cravatte sulle questioni di scottante attualità, con l’avvicinarsi del fine settimana senta l’impellente bisogno di liberarsi dal gioco dell’oggi per immergersi con altrettanto agio nel profondo ieri.

 

Per farlo ovviamente parte dall’abbigliamento, borsa di tolfa a tracolla, pantaloni con molte tasche, a volte un cappello, scarpe da cammino estremo. E così conciato vaga a voce alta per il Paese in lungo e in largo alla ricerca di un qualcosa.

 

A dire il vero quale sia l’esatto focus del programma non è chiarissimo, visto che il nostro passa leggiadro da bande di ninfe danzanti in dissolvenza ammantate da fasci di luce abbagliante, a specchi d’acqua (molta acqua), di cui scruta i fondali, immerge mani e braccia, solca a bordo di barchini oscillanti come le inquadrature. E soprattutto si sposta, di bosco in bosco, affronta manti erbosi e oscuri antri come un novello Titiro virgiliano.

 

Ma quel che è certo è che si parte e si arriva all’antica Roma, attraverso feste e riti simil pagani con parole cadenzate in forma quasi metrica, che restano nell’aria come note di Pan, echi di “oscura potenza generatrice”, “prodigiosa madonna nera”, “ la madre degli dei”, “l’invasore cartaginese”, gli orgiastici colleghi sacerdotali, “i segreti ermetici”, “la sapienza italica”, “il culto definitivo”. In estrema sintesi, come avrebbe detto il maestro Marenco, uto, ato.

 

Così, lasciati al restante palinsesto le diatribe sul complessismo, le velate accuse di putinismo, il dibattito ucraino, i confronti meloniani e le incursioni sui diritti, Giuli si reincarna in una sorta di Gran Mogol del sacro, non solo mostrandosi perfettamente a suo agio tra morte e rinascita, maschere fuligginose, pelli di pecora e campanacci. Ma soprattutto lasciando intendere che la vita da opinionista sia più dura di quel che appare a uno sguardo superficiale. E se proprio bisogna infilarsi in un pertugio, meglio farlo vestiti da Roberto Giacobbo.