Libertà di espressione o idea di progresso? Multiculturalismo o laicità? Sfuggente e contraddittorio, il termine è sotto i riflettori. Ma quali valori, linguaggi, modi di pensare identifica? Rispondono Dan Diner, Laura Boella, Agnieszka Graff e Anna Loretoni

Sono passati quasi quarant’anni da quando Milan Kundera parlava – in un testo sulla rivista francese Le Débat - di un “Occidente sequestrato” (ora pubblicato da Adelphi con il titolo “Un Occidente prigioniero”). Intendeva l’Europa centrale, con le sue città e i suoi scrittori, e l’annessione della sua Praga e della Praga di Kafka a quella che all’epoca veniva chiamata “l’Europa dell’Est”. Nel frattempo Praga è tornata in Occidente, ma la parola Occidente è di nuovo al centro dell’attenzione e delle polemiche. Basti guardare la tv di Mosca dove in tante trasmissioni si dice che l’Ovest è sinonimo di barbarie e decadenza.

Ma allora, cosa è Occidente? E possiamo definirlo – non tanto in contrapposizione ad Altro, ad Oriente, quanto invece come un insieme di linguaggi, valori, modi di pensare? Ne abbiamo parlato con uno storico, due filosofe e una storica di letteratura. Ma prima di procedere, una premessa necessaria. In nome e per conto dell’Occidente sono state commesse nefandezze e atti di barbarie: basti pensare al colonialismo e si potrebbe continuare con eventi piuttosto recenti. Un pensatore, occidentale, come Zygmunt Bauman e prima di lui Theodor Adorno, Max Horkheimer o Hannah Arendt hanno scritto e riflettuto sulle antinomie dell’Occidente: sulla promessa della Modernità di emancipazione e inclusione e l’incapacità di realizzarla. Ma procediamo.

 

Agnieszka Graff è storica della Letteratura, studi a Oxford e negli Stati Uniti e soprattutto è una intellettuale radicale che oltre una ventina di anni fa impose il femminismo nel pubblico dibattito in Polonia. In un Paese da poco uscito dal comunismo e dove la Chiesa era considerata l’arbitro della sfera dell’etica, Graff ha portato il pensiero sovversivo “occidentale”: irriverenza nei confronti dei padri (maschi e cultori del patriarcato) della nuova democrazia compresa. Oggi rivendica il diritto di guardare il “centro” dell’Occidente dalla prospettiva della “frontiera” della “periferia polacca”. Dice: «L’Occidente è libertà di parola, soluzione di conflitti senza uso di violenza, e uguaglianza intesa come aspirazione e cammino verso quello scopo».

 

Chiarisce che quello è un programma minimo, liberale e non radicale, ma indispensabile di fronte al montare dell’ondata populista e dell’espansionismo russo (e i valori sono spesso coincidenti: famiglia “naturale e tradizionale”, rigetto delle istanze delle persone Lgbt, il “gender”, studi di genere visti come invenzione demoniaca). Riflette sull’Occidente come spazio multiculturale che contempla le differenze, e poi pur da critica del sapere maschile occidentale, conclude che comunque il femminismo è un’invenzione illuminista perché alla radice c’è la donna «come un essere razionale soggetto della lotta per l’emancipazione». E la prospettiva di frontiera? Eccola: «C’è un fenomeno che da noi, all’Est dell’Occidente, chiamiamo “Westsplaining”, variante di mansplaining. Mansplaining, nel linguaggio femminista, sta per il maschio (man) che spiega (explains) il mondo alle donne. Per analogia: «C’è una convinzione, radicata e falsa, che noi in periferia siamo brave a trovare i dati ma l’interpretazione di questi dati spetta a chi sta al centro». Ogni allusione a una certa indifferenza (a Roma o a Berlino) delle femministe nei confronti del destino delle donne ucraine, è voluta. «Eppure», dice Graff, «l’azione di solidarietà con l’Ucraina, in Polonia, è partita da organizzazioni femministe. Forse sempre da qualche parte prevale ancora la convinzione che l’unico imperialismo è quello occidentale».

 

L’Occidente per Hegel è la Terra del tramonto, il luogo dove la filosofia si compie perché la nottola di Minerva, uccello della sapienza, spicca il volo al crepuscolo. Dopo quel volo, molti hanno intravisto il declino o l’Apocalisse. «Ma Occidente non è solo declino», reagisce Laura Boella, «l’Occidente è pure rigenerazione e palingenesi». Boella è filosofa, insegna alla Statale di Milano, ha alle spalle studi e libri su Arendt, sul pensiero di filosofi marxisti eterodossi come Ernst Bloch (suo il concetto “principio speranza”), è stata amica dell’ungherese Ágnes Heller e ha frequentato intellettuali dissidenti dell’Europa del centro, o se vogliamo dell’Europa di Mezzo. Sottolinea (come del resto tutti i nostri interlocutori) una certa differenza fra l’Occidente europeo e quello del Mondo Nuovo, ossia gli Stati Uniti. E si sofferma sull’Europa di Mezzo, il «cuore dell’Europa».

Dice che quel cuore «non è solo un mito letterario, ma una realtà geopolitica», variegata e polifonica che fin dalla sua natura e configurazione «ci aiuta a disinnescare il pensiero semplificato». In soldoni. Le città di quell’area che grosso modo corrisponde all’ex Impero asburgico, erano popolate da gente di varie lingue, fedi, appartenenze, in una tensione perpetua fra conflitto e convivenza. Paul Celan, poeta sublime nato a Czernowitz, scriveva in tedesco («la lingua del carnefice di mia madre», dice in una poesia) e padroneggiava lo yiddish, il rumeno, il russo, l’ebraico, il francese e forse qualche altro idioma. Parlare fin dalla nascita varie lingue aiuta (seppur non sempre) a capire l’Altro. Boella cita Kafka per il quale «scrivere in tedesco era una lotta». Poi chiosa: «Grazie a quel mondo esiste un Occidente non autoreferenziale». Si riferisce non solo alla pluralità delle fonti “interne”, ma anche all’influenza che ebbe la rivoluzione russa su una serie di filosofi non necessariamente comunisti e spesso critici nei confronti dell’esperienza russa.

 

Rimarca: «L’importante è il fatto che l’Occidente permette un modello di pensiero non binario, pure nel conflitto». Riflette: «Il conflitto è la linfa della vita. Però bisogna saper reggerlo e non cercare di padroneggiarlo». Non padroneggiare vuole dire quello che scrisse Albert Camus: «Ammettere l’ignoranza, rifiutare il fanatismo, porre limiti al mondo e all’uomo»?, chiediamo. «Sì», risponde Boella. E insiste: «Dire Occidente significa guardare avanti». Ora, guardare avanti allude al concetto di progresso. Però ecco, l’eredità illuminista e progressista ha avuto e ha, in Occidente, critici radicali e importanti. Primo fra tutti Walter Benjamin, che in una metafora celebre, di stampo apocalittico, così parlava: «L’angelo della storia (ha) il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe (...). Egli vorrebbe trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso (...). Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle (...). Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta».

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Ecco, Boella, citando a sua volta un testo di Heller (sarà pubblicato in italiano da Castelvecchi), dice che forse sarebbe il caso di ridiscutere i caratteri del pensiero catastrofico occidentale. Non per rigettarlo, «ma per ribadire che ogni lutto e ogni fine sono prodromi di un inizio».

 

Andare avanti, quindi ma anche trovare un Occidente in quello che consideriamo Oriente è un’idea cara a Dan Diner. Diner è storico, divide il suo tempo fra Berlino e Tel Aviv, ed è autore di libri fondamentali sul Novecento. Per Diner, l’Europa si capisce bene dalla prospettiva della scalinata di Potemkin a Odessa. In breve, l’Ottocento, con le rivendicazioni di nuovi nazionalismi, ha in gran parte origine in quella città, oggi simbolo della resistenza ucraina. Per esempio il movimento nazionale greco che contestava l’Impero Ottomano nasceva lì, in quel luogo plurilingue e di una dozzina di identità. E pure il Giappone è ormai Occidente. Infatti, «l’Occidente è quella parte del mondo, che ha superato la geografia». Spiegazione. L’origine dell’Occidente è Europa. Europa è una parola greca che a sua volta riprende un termine fenicio, per tramonto. Siamo quindi ai confini dell’Asia. L’Occidente è anche una costruzione che separa e al contempo unisce le due sponde dell’Atlantico. Ma attenzione: sbarcare oltre l’Oceano fu possibile grazie «all’invenzione di strumenti tecnici, in questo caso la bussola». La bussola permette di navigare, di andare avanti, esplorando l’ignoto. Ma la bussola esiste prima di tutto «in virtù di un approccio laico. Laicità vuol dire la convinzione che l’uomo è padrone del proprio destino, e quindi l’individuo è libero. E la libertà comporta l’esercizio del dubbio».

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Ovviamente, c’è la tensione fra Gerusalemme e Atene, fra il sacro e la fede da un lato e la filosofia dall’altro. «Ma», prosegue Diner , «in Occidente la verità non è monopolio del potere». Obiezione. Galileo fu costretto ad abiurare la sua verità. «Certo, ma da allora, il processo di laicizzazione è andato avanti». Aggiungiamo noi, che si tratta di un processo non compiuto. Perché in Occidente niente è compiuto, la provvisorietà e l’incertezza sono caratteristiche del dubbio, e quindi della modernità. Di più, sono causa dell’inquietudine dell’uomo moderno. Con tutte le sue ambivalenti conseguenze.

 

Anna Loretoni insegna Filosofia politica alla Scuola di Sant’Anna di Pisa. È autrice di testi scientifici riguardanti politica internazionale, diritti umani e studi di genere, pubblicati in varie lingue. «L’Occidente», risponde alla domanda, «è la Dichiarazione dei diritti umani del 1948 e anche la Dichiarazione di Schumann del 9 maggio 1950 in cui l’allora ministro degli Esteri francese proponeva la creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio, a sua volta il nucleo da cui nasce l’Unione europea». Spiega: «Per noi, europei, dopo l’esperienza delle due guerre mondiali, la ricostruzione dell’Occidente si basa sulla consapevolezza della tragedia e non su retorica di trionfalismo ed eroismo. Per questo abbiamo introdotto i diritti dell’individuo anche contro lo Stato e cercato di correggere le distorsioni pericolose della sovranità. Oggi, abbiamo più bisogno di Kant con la sua utopia di pace perpetua e meno di Carl Schmitt e l’idea del nemico e dello Stato d’eccezione». Tutto questo non è però semplice. «Infatti», dice Loretoni, «negli States l’idea di delegare elementi di sovranità a organismi multilaterali e internazionali è ancora poco accettata. E pure in Europa abbiamo visto all’opera governi sovranisti. Però: l’Occidente è anche quel luogo in cui il patriarcato viene contestato e il discorso di genere, fra mille difficoltà e contraccolpi, trova un suo spazio».

 

Dice Loretoni che c’è molto altro da fare. Per esempio l’Europa appare spesso come una fortezza e non un luogo di accoglienza. Ma, l’abbiamo già detto, l’Occidente è un lavoro in corso, terreno di contraddizioni, storia incompiuta e che mai si compirà, e più che alla nottola di Minerva assomiglia a una Sherazade che a ogni tramonto si reinventa una storia da raccontare. Talvolta tradisce se stesso, altre volte sfrutta popolazioni in terre lontane (basti pensare, annota la polacca Graff, ai bambini che lavorano nelle fabbriche del Bangladesh) ma è anche un luogo capace di ricominciare, perfino dopo le catastrofi. Bauman, pur critico dell’Illuminismo, amava citare Hannah Arendt: per cui ai tempi bui, occorrono persone e forze in grado di conservare, per le future generazioni, il Lume della Ragione.