I ritratti delle star e di Elisabetta II. I corpi come paesaggi da esplorare. L’esistenza piena di eccessi, droghe, amanti. A Londra l’imperdibile mostra del grande pittore

Negli ultimi anni della sua vita, Lucian Freud (1922-2011) aveva deciso di lasciare la sua casa-studio londinese a Paddington per il più borghese e ricco Notting Hill, ma ogni volta che vi tornava per comprare una tela o i colori, i commercianti del quartiere che lavoravano al mercato della carne di Smithfield, quando lo vedevano, gli gridavano: «Ehi Lou, come ti va?». Lo racconta Geordie Greig nel suo libro “Colazione con Lucian Freud: ritratto di una vita nell’arte” (Mondadori, 2015), ricordando come tra loro ci fosse un rapporto di confidenza e a suo modo di affetto.

Fu lui - che era già una rock star dell’arte contemporanea - ad averlo creato e permesso, perché gli piacevano queste liason con le zone più rudi della società, come gli piaceva allo stesso modo frequentare Ascott House, la casa di famiglia nel Buckinghamshire dell’aristocratico banchiere Sir Evelyn de Rothschild, dove ammirava i dipinti di cavalli del XVIII secolo di George Stubbs.

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L’alto e il basso, dunque, una costante che Freud – figlio di due ebrei (padre architetto, madre storica e filologa) costretti a fuggire da Berlino all’arrivo di Hitler quando lui aveva 11 anni - riusciva a mixare nella realtà sociale come sulla tavolozza dei colori, creando opere con ragazzotti presi dalla strada o giovani modelle, con familiari e altre super star, da Jerry Hall a Kate Moss (ritratte entrambe col pancione) e il generale Andrew Parker Bowles (ex marito di Camilla, l’attuale regina consorte), da Stephen Spender a David Hockney e Francis Bacon, di cui fu amico (grazie a Graham Sutherland), amante e poi nemico. «Viaggio in verticale invece che in orizzontale», diceva riguardo la sua promiscuità sociale, senza sapere che avrebbe esercitato un gran fascino su ogni generazione futura. Nell’imperdibile mostra che gli dedica fino al 22 gennaio del prossimo anno la National Gallery – Lucian Freud: New Perspectives – “l’alto” è rappresentato dal celebre ritratto che fece alla Regina Elisabetta II. Fu lei a chiederglielo, nel 2000, sulla scia di un’abitudine secolare secondo la quale grandissimi pittori avevano ritratto i suoi predecessori (Enrico VIII da Holbein, Carlo V da Tiziano, Carlo I da Van Dick). Non potendo pretendere che fosse la sovrana ad andare nel suo studio, fu costretto a recarsi ogni giorno a St.James Palace per sedici mesi di seguito fino al dicembre del 2001, chiedendo però alla sua regale modella di indossare la corona di diamanti. Quando il quadro, di piccole dimensioni, fu reso pubblico, fu criticato per il suo stile provocatorio e alcuni giornali inglesi paragonarono l’effigie della Regina a quella di “un travestito”, ignorando che l’opera era piaciuta molto alla diretta interessata.

Ma c’è di più. Se visiterete la mostra londinese – che da febbraio 2023 si sposterà al Museo Nacional Thyssen-Bornemisza di Madrid, continuando a celebrare il centenario della sua nascita (l’8 dicembre 2022) – nella sala dedicata ai suoi quadri più intimi – dove c’è il ritratto di lui allo specchio con i figli (1965), i “Due Uomini sul letto” (1987/8) e “Double Portrait” (1985/6), uno dei suoi più conosciuti, già esposto alla Tate Britain nel 2002 e alla Royal Academy of Arts poco prima della pandemia – ce ne sono anche diversi dedicati a sua madre. La somiglianza tra quelle due donne così agli antipodi è impressionante. Fu quello un modo per Freud di dimostrare affetto, più che amore, a entrambe? Chi può dirlo, anche perché aveva tutto un modo particolare di intenderlo e manifestarlo. Donne, uomini, amici, amanti e…molto altro ancora. La sua mancanza di regole significava che faceva quel che si sentiva al momento e voleva, perseguendo la sua arte e i suoi piaceri a qualunque costo, senza mai giungere a compromessi. La sua è stata una vita sfacciatamente egoista che era felice di difendere e di vivere appieno, nonostante le accuse di infedeltà, crudeltà e di assenza continua.

Aveva un fascino e un carisma a cui pochi riuscivano a sfuggire e nonostante gli eccessi (risse, droghe, alcol e sesso, non per forza in quest’ordine), morì sereno a 88 anni, si sposò due volte, ebbe un numero imprecisato di amanti e ben quattordici figli che, ovviamente, posarono per lui, alcuni dei quali anche nudi. Tra questi, Freddy, a ventinove anni restò ore e ore senza vestiti davanti al padre per un ritratto frontale a grandezza naturale. La nudità è stato uno dei tratti distintivi della sua pittura e alla National Gallery («uso la galleria come fosse un dottore, vengo qui per idee e aiuto», si legge all’ingresso della mostra curata da Daniel F. Herrmann), ce ne sono diversi che dimostrano quanto il profondo interesse che aveva per la rappresentazione e la materialità della pittura, lo conducesse ad un’appassionata indagine sul corpo umano, compreso il proprio in età avanzata, come noterete nell’espressivo “Painter Working, Reflection” (1993) o nell’ultimo del 2011, davanti una parete dipinta con pennellate di vario colore.

Una magnifica ossessione, quella di Freud, con corpi mostrati in tutti i loro pregi e difetti, poco importa se belli o brutti, grassi o magri. «Voglio che la pittura sia carne», diceva e il suo “The body as landscape” (1979/80) evidenzia a parole, oltre che con l’immagine, che il corpo era davvero per lui un paesaggio da scoprire, usare e conservare, persino rovinare, comunque da mostrare, condividere, disegnare e toccare. L’intelletto e l’emozione collimavano nel suo lavoro e nella sua vita: usava le persone da cui era attratto per produrre quadri che fondevano impatto visivo e intento psicologico. I suoi nudi, splendidi nella loro evidenza e drammaticità, catturavano la verità che aveva di fronte: dalle cosce aperte di donne o di uomini che mostravano i genitali allo sguardo assente di persone inconsolabili in pose altrettanto imbarazzanti. «Per gli altri, sì, ma non per lui, che non conosceva imbarazzo», ci disse quattro anni fa, a Firenze, l’artista Marina Abramović, sua grande fan, evidenziando come Freud fosse riuscito a cambiare l’umore e il linguaggio della ritrattistica.

Sono nudi, i suoi, che spiccano tra le opere giovanili presenti in mostra, tra cui un autoritratto (1940), “I Rifugiati” (1941), “La stanza del pittore” (1944), “La donna con il tulipano“, “La donna con il narciso” e “La Donna col gattino” (tutti e tre del 1947), senza dimenticare quello in cui è giovanissimo e bellissimo, dove indossa una camicia celeste dello stesso colore dei suoi occhi vicino una foglia dorata, quello in cui ha un abito nero come la cravatta tenendo in mano una piuma o un altro ancora con un vaso di giacinto (1948). Particolari davvero e dal forte impatto, sono tutti quelli ambientati sui letti, mobili molto amati da Tracey Emin e Antonio Marras, per non parlare poi dell’iconico “Girl with white dog” (1950/52) dove c’è la sua prima moglie, Kitty Garman, con un seno fuori dal vestito e un bull terrier bianco vicino, a dir poco incantevole. Sì, perché quelli di Freud sono quadri emotivi prima che artistici, un invito a ricordarci che l’emotività inizia proprio da noi, altrimenti è solo assenza.