Cinque anni al blogger di piazza Tahrir. E lunghe persecuzioni per Zehra Dogan e Ahmet Altan in Turchia, o per l’iraniana Gholian. Come in Italia sotto il fascismo o nella Polonia comunista, in Medio Oriente essere scrittori è un delitto

Silenzio dalle prigioni. Nessuna parola deve alzarsi in volo e superare le alte mura delle carceri. Anche se dentro – dentro le celle, nelle stanze degli interrogatori e delle torture, nelle limitate ore d’aria – le voci si levano alte. 

Basta che non si scriva e non si legga. Nessuna parola nero su bianco. Nell’era del digitale, del consumo compulsivo di dati, è ancora la carta a far paura alle dittature. Carta e penna sono vietate, o soggette a estenuante negoziato. Eppure, carta e penna sono gli oggetti necessari per scrivere  alle famiglie. Ai propri cari. Perché le visite nei parlatoi sono centellinate, proibite nella maggior parte dei casi. E poi c’è la carta dei libri, l’inchiostro delle riviste. Perché anche leggere è considerato un pericolo.

Parliamo dell’Egitto di oggi. Di Iran e Turchia. Potremmo parlare dell’Egitto di ieri, della Nigeria degli anni Sessanta, della Polonia degli anni Ottanta. O dell’Italia del fascismo e del suo prigioniero più famoso, Antonio Gramsci.

Proprio Gramsci è divenuto, nel corso dei decenni, un simbolo, oltreconfine. Nelle università americane e britanniche. Nei circoli intellettuali di tutto il mondo. E anche tra gli arabi. Il Gramsci delle lettere e dei quaderni dal carcere non è solo molto tradotto: è figura di riferimento per intere generazioni, specie quelle più recenti.

Com’è riferimento per Alaa Abd-el Fattah, il prigioniero più noto tra i circa sessantamila detenuti di coscienza che affollano all’inverosimile le carceri egiziane. Alaa Abd-el Fattah, o @alaa, com’è conosciuto nella realtà virtuale, non è solo la figura iconica della rivoluzione di piazza Tahrir del 2011. È una delle menti politiche più lucide che è possibile trovare in tutta la regione araba, e che occorre leggere – soprattutto noi italiani - per comprendere cos’è veramente successo e cosa sta accadendo in Egitto.

Sette degli ultimi anni @alaa li ha passati nel carcere di massima sicurezza di Tora, al Cairo. È ancora lì dentro, dopo l’ultimo biennio in detenzione cautelare. E resterà in carcere per altri cinque anni: così ha stabilito il tribunale del Cairo il 20 dicembre scorso introducendo nuove accuse. L’ennesima sentenza contro l’autonomia di pensiero e la democrazia, per un uomo che è stato limitato nella sua libertà da tutti coloro che si sono succeduti al potere, a cominciare da Hosni Mubarak.

Gramsci, dunque. Lo stesso Gramsci a cui per parecchio tempo fu negata carta e penna «dato che passo per essere un terribile individuo, capace di mettere il fuoco ai quattro angoli del paese o giú di lí», scriveva nel 1928 in una delle sue lettere contingentate. @alaa lo cita poco meno di un secolo dopo, in una lettera del 2019, uno degli scritti contenuti in “Non siete stati ancora sconfitti”, pubblicato da hopefulmonster editore (in contemporanea con l’edizione inglese di Fitzcarraldo), risultato di un sorprendente lavoro collettivo di raccolta, selezione e traduzione delle sue parole. «Non riesco davvero a sforzare la mia immaginazione con sogni post-rilascio ma, sai, cerco di trovare una ragione per essere un minimo ottimista di fronte all’ondata di destra che sta sommergendo il pianeta, e i cui effetti prima o poi arriveranno anche qui». Scrive: «Certo, mi sforzo di applicare la teoria di Gramsci riguardo “il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà”, ma qui c’è una tale negazione della volontà che devo fare esercizio di ottimismo della ragione prima di incasinare i miei compagni».

Tutti i sistemi autoritari sono accomunati dall’incapacità di gestire il proprio rapporto con l’atto del pensare. L’esercizio del pensiero, del dubbio, della confutazione è per questi sistemi insopportabile: è quella forza dei fragili che impone alla tirannia di togliere dalla vista della società i corpi dei dissidenti e rinchiuderli dentro le carceri, perché restino invisibili.

Non potendo più disporre di un corpo, di un corpo fisico, il prigioniero dà alle parole - unica parte di sé che prova a far uscire dalle mura del carcere - un volume nel mondo. Passa dal corpo al corpus letterario.

Carta e penna erano sempre nelle mani di Nawal al Sa’dawi, come un simulacro. Li teneva stretti anche in tutti gli interventi pubblici e le interviste che ha rilasciato nella sua vita, sino alla morte al Cairo nel 2021 a un passo dai 90 anni. Carta e penna che vengono negate all’icona del femminismo egiziano quando, alla fine dell’estate del 1981, viene arrestata assieme a un migliaio di oppositori alla politica dell’allora presidente Anwar al Sadat.

È Nawal al Sa’dawi stessa a raccontarlo, nelle "Memorie dalla prigione” che pubblica dopo il suo rilascio. Ogni giorno il secondino entrava nella cella della prigione di al Qanater, a nord del Cairo, in cui era rinchiusa con altre detenute politiche, e la minacciava. “Le memorie della prigione” sono state scritte su un rotolo di carta igienica con una matita da trucco.

Zehra Dogan, artista curda costretta all’esilio dalla Turchia dopo una detenzione durissima, ha impresso invece i suoi disegni sul retro delle lettere che le inviava un’amica. La potenza dei disegni di Zehra Dogan, poi costretta all’esilio dopo una detenzione durissima, non ci trascina solo all’interno dell’inferno della “Prigione n. 5”, pubblicato da Becco Giallo. Interroga su un mondo invisibile in cui “tutto il male del mondo” si concentra sui corpi inermi dei prigionieri.

Così è anche per i racconti dell’iraniana Sepideh Gholian, “colpevole” dei resoconti giornalistici sulle proteste dei lavoratori della più grande raffineria di zucchero del Paese, quella di Haft Tappeh. Arrestata con il leader sindacale Esmail Bakhshi, Gholian (nata nel 1994)  ha avuto un breve rilascio su cauzione per essere di nuovo arrestata e costretta a peregrinare in diverse carceri dell’Iran. I suoi “Diari da carcere” sono pubblicati grazie all’impegno di Gaspari, libreria e casa editrice di Udine, con l’aiuto dell’associazione “Librerie in Comune” e del festival vicino/lontano.

La “scrittura dalle prigioni” egiziane, iraniane, turche arriva dunque, in anni recenti, ai lettori italiani attraverso un numero sorprendente di libri che compongono quasi un canone. La lista è lunghissima, spazia dai memoriali ai testi di riflessione politica e teorica, dalla narrativa alla poesia: Gramsci e Rosa Luxemburg, Nelson Mandela, Wole Soyinka, l’indonesiano Pramoedya Ananta Toer, i russi della letteratura concentrazionaria. I dissidenti dell’Europa orientale, prima del crollo del Muro. Vaclav Havel e la sua riflessione sui “senzapotere”.

Adam Michnik, arrestato nel dicembre 1981 assieme a migliaia di esponenti del sindacato Solidarność. «Un prigioniero conta tutto, tranne il tempo. Un prigioniero scopre il tempo», dice Ahmet Altan, uno dei più importanti scrittori turchi contemporanei, nel suo diario dal carcere, “Non rivedrò più il mondo” (Solferino). E Alaa Abd-el Fattah gli fa eco: «Dicono che siamo in prigione perché non siamo stati in grado di decidere. La portata dei nostri sogni era troppo grande. Come se questo fosse un crimine».