Il movimento islamista al potere: “Proteggeremo anche il patrimonio pre-Islam”. E interpellano gli esperti del nostro Paese. Che si dividono​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​

«Abbiamo bisogno del sostegno dell’Italia e dei vostri specialisti per tutelare il nostro patrimonio architettonico. Vogliamo che tornino a lavorare qui a Ghazni appena possibile». Lunga barba nera, giacca militare che toglie solo per la foto d’occasione, mullah Abibullah Mujahid è un uomo corpulento di 48 anni dallo sguardo tranquillo e i toni calmi. Viene da Andar, uno dei distretti di Ghazni, un’ampia provincia rurale tra la capitale Kabul e Kandahar. Mullah Mujahid usa il nome di battaglia: da 27 anni milita nel movimento islamista. Prima all’opposizione armata contro le truppe straniere e il governo di Kabul considerato fantoccio. Dall’agosto 2021 al potere. «Per 14 anni sono stato il responsabile dell’informazione nella provincia di Ghazni», spiega il mullah mentre sgrana un rosario: «È la propaganda degli americani a descriverci come gente cattiva, ma siamo ospitali». Uomo della vecchia guardia, si è meritato un posto di governo. Oggi è a capo del dipartimento per l’Informazione e la Cultura della provincia di Ghazni. Dalle sue scelte dipende uno straordinario patrimonio artistico, del cui valore sono ben consapevoli gli studiosi italiani che qui, per decenni, hanno condotto scavi e studi. Fino a quando è stato possibile. «Se il nostro ministero della Cultura dà il via libera, siamo pronti a collaborare con loro già domani. Non ci sono rischi: ci occuperemo della loro sicurezza», assicura Abibullah Mujahed. Accanto a sé, un kalashnikov.

 

 

Fondata da Giuseppe Tucci nel 1957 «in seno all’Ismeo, l’Istituto italiano per il medio ed estremo oriente», il primo obiettivo della missione è «stato quello di rintracciare archeologicamente la Ghazni islamica, prima nota quasi esclusivamente dalle fonti, che ne illustravano l’importanza politica e lo splendore artistico». A spiegarne la storia è l’attuale responsabile della missione, Anna Filigenzi, docente all’università l’Orientale di Napoli. Gli scavi danno subito risultati importanti, ampliando la conoscenza «dell’architettura e della cultura materiale del periodo che segna la penetrazione e il radicamento dell’Islam nel Paese».

 

 

Mullah Mujahid sembra non esserne consapevole, ma è qui a Ghazni che l’Islam si fa “afghano” e, insieme, cosmopolita. Grazie alla dinastia dei ghaznavidi. Inaugurata nel 977 dallo schiavo turco Sebuktigin, la dinastia dei ghaznavidi diventa una delle più importanti del medioevo islamico, grazie in particolare al figlio del fondatore, Mahmud. È il 998 quando, ventisettenne, eredita il sultanato e la città di Ghazni, che trasforma nel principale centro culturale dell’Asia centrale. Mahmud inaugura scuole, invita scienziati come il matematico al-Biruni, poeti e letterati come Firdusi, che a Ghazni completa lo Shanameh, il libro dei re, pietra miliare della letteratura persiana. Fa costruire caravanserragli, palazzi, moschee, giardini, ma anche dighe, ponti, strade. E lo fa grazie ai bottini conquistati nelle campagne militari indiane. Dove porta l’Islam sunnita, di cui si fa paladino, e da cui riporta influenze culturali e artistiche che condizioneranno secoli di arte islamica. Mahmud e i successori accolgono «maestranze e artigiani dalle terre conquistate al fine di creare nuovi linguaggi espressivi e abbellire il proprio regno e, soprattutto, la capitale», nota Roberta Giunta, anche lei docente all’Orientale di Napoli e vicedirettrice della missione italiana. Grazie a questa «volontà di splendore e grandezza», Ghazni finisce per meritarsi un posto tra le grandi città del medioevo islamico. Se nel centro di Ghazni c’è ancora parte dell’antica città murata, dominata da una cittadella fortificata di 45 metri costruita nel XIII secolo, è a Rowzah-e-Sultan che bisogna andare per rintracciare l’eredità della capitale dei ghaznavidi. Con un taxi collettivo ci si arriva per pochi afghanis e una decina di minuti dal centro. Qui c’è il mausoleo di Mahmud, nei cui giardini le bambine giocane con le altalene. Qualche chilometro più in là, lungo una strada sterrata si incontrano i minareti di Masud III e Bahram Shah, di cui restano le parti inferiori, a sezione stellare, poggiate su un basamento di pietra. Facevano parte di ampi edifici religiosi. In quest’area sono avvenute molte delle scoperte della missione italiana che, «mentre indagava la Ghazni islamica, rintraccia resti buddhisti sulla cima di un colle», racconta Anna Filigenzi.

 

 

È Tapa Sardar, dove emerge «un grande santuario di fondazione regia». Oggi l’intero colle è circondato da una rete metallica. Qua e là, una torretta di avvistamento. Questa è un’area militare, strategica. Dalla cima del colle si vede una grande caserma la cui costruzione si è interrotta con il collasso della Repubblica islamica, a metà agosto. Più in là un’altra caserma, oggi occupata dai Talebani. Sotto Tapa Sardar c’è invece lo stadio cittadino. Qui poche settimane fa i Talebani hanno dispensato giustizia a modo loro: decine di frustrate per due uomini, accusati di atti sessuali contrari alla Sharia. L’esibizione pubblica è avvenuta poche ore dopo il nostro incontro con mullah Abibullah Mujahid. Che tiene a rassicurare l’ospite straniero. I Talebani non sono più quelli del primo Emirato, quelli che buttavano giù con l’esplosivo i Buddha di Bamiyan. «Non conta che appartenga al periodo precedente all’Islam: l’intero patrimonio archeologico è importante e lo proteggeremo», assicura. È la linea della leadership del movimento. Usare la politica culturale come arma politica. I Talebani ambiscono al riconoscimento del secondo Emirato, a soldi e a competenze. Qualche lezione l’hanno imparata. Chiusa con una vittoria schiacciante la partita militare contro le truppe d’occupazione, giocano una duplice partita. La prima è sul fronte diplomatico, ricordando all’Occidente che la gravità della crisi umanitaria in corso dipende dalla chiusura dei rubinetti che per 20 anni hanno alimentato la macchina statale afghana. L’altra è sul fronte culturale. Una campagna mediatica per mostrare al mondo un volto nuovo.

 

Pochi giorni fa, sui social del gruppo è circolata la foto dei primi due turisti arrivati al minareto di Jam, splendido esempio di architettura ghoride. Nella photo-opportunity i due, un uomo e una donna, sembrano ostaggi. Ma sul tavolino di fronte a loro ci sono tè e caramelle. Ospiti graditi. Quando ci siamo andati noi, molti anni fa, lungo la strada tra Herat e Jam, nella provincia di Ghor, si rischiava di finire sequestrati dagli stessi Talebani che oggi offrono tè. Ma quel capitolo è chiuso, sostengono i barbuti. «Il minareto è a rischio crollo, serve l’aiuto della comunità internazionale». In attesa di aiuti esterni, l’Emirato ha deciso di formare un team di 30 persone per verificare le condizioni del minareto e proteggerlo. L’operazione “talebani-amanti-della-cultura” prosegue a Kabul, dove due settimane fa ha riaperto il Museo nazionale. Se al tempo del primo Emirato, alla metà degli anni Novanta, il Museo veniva razziato, molti reperti distrutti, oggi sono i soldati del movimento a visitarlo. Anche per il museo si sono levati alti gli appelli: serve l’aiuto della comunità internazionale. Non appena i Talebani sono arrivati al potere Audrey Azoulay, direttore generale dell’Unesco, ha invocato la tutela «dell’eredità culturale dell’Afghanistan nella sua interezza». Per Martina Rugiadi, studi alle spalle sui marmi di Ghazni e co-curatrice al Metropolitan Museum di New York, i Talebani hanno imparato le regole del gioco.

 

«Nella loro prima iterazione governativa hanno preso spunto e fatto arma di tali posizioni ambigue e allarmiste, dimostrando di essere capaci di occupare le prime pagine dei giornali a loro piacimento», spiega all’Espresso, parlando a titolo personale. Benché benintenzionate, «le dichiarazioni universaliste sul patrimonio culturale da parte di enti intergovernativi quali l’Unesco, i proclami per salvare l’arte ancora frequenti nel mondo del collezionismo globale, appartengono a una mentalità profondamente discriminatoria», sostiene Rugiadi. Inutile trincerarsi dietro lo specialismo, o la storia. «L’archeologia ha la pretesa di interessarsi al passato, ma opera nel presente ed è responsabile di dinamiche e squilibri di potere», di cui pagano le conseguenze i cittadini e le cittadine afghane. Per questo, continua Rugiadi, dovremmo spostare «l’interesse dagli oggetti alle persone». La prima responsabilità «è verso i nostri collaboratori e colleghi, in parte ancora nel Paese». Non si può esigere che, per il “bene dell’arte”, affrontino sofferenze e sacrifici. Tra loro c’è Ghulam Rajabi Naqshband al-Hajji.

 

È stato lui, ricorda Giunta, ad accogliere «con un caldo sorriso e un fluente italiano che ancora parlava dopo trent’anni» la delegazione italiana nel 2002, alla ripresa dei lavori della Missione, poi di nuovo interrotti nel 2005 e proseguiti da remoto. Memoria storica della missione, Rajabi di solito vive a Ghazni. Quando la visitiamo, però, è a Herat. «Conosco meglio di chiunque altro Ghazni», dice al telefono: «Tornerei a lavorare nel settore, per la mia terra. Ho lavorato per il dipartimento dell’Informazione e cultura per 40 anni. Ma ora non c’è stipendio, né per me né per altri. Come si fa?».