La forza delle immagini e la censura politica. Un Paese che cambia, i conti con la storia. E il tempo, che neppure l’arte può afferrare. Parla il grande regista russo

Per Walter Benjamin il cinema è l’arte emblematica del mondo moderno. Aleksandr Sokurov svela all’Espresso la propria visione dell’arte, della cultura e dell’uomo. Considerato tra i migliori registi europei, l’artista russo, oggi 70enne, è molto apprezzato in Italia. A ottobre ha ricevuto il premio alla carriera al Lucca Film Festival e La Nave di Teseo pubblicherà la versione aggiornata del suo libro “Al centro dell’oceano”. L’autore di “Arca Russa”, capolavoro girato in un unico piano sequenza al Museo Ermitage di San Pietroburgo, e di “Faust”, Leone d’oro 2011, ha lavorato molto sul rapporto tra l’eredità artistica, l’etica e la storia. I suoi film sono visionari, lirici come dipinti ispirati a Friedrich e Turner. Nella quadrilogia del potere –  “Moloch” (1999), “Taurus” (2000), “Il Sole” (2004) e “Faust” (2011) - Sokurov esplora gli aspetti più intimi e grotteschi del potere totalitario, mettendo in scena Hitler, Lenin, l’imperatore Hirohito.

 

Nei suoi film lei indaga i rapporti tra Europa e Russia. Questa relazione è basata su una mancanza di comprensione?
«L’incomprensione tra i politici esiste senza alcun dubbio, è palese. Nella cultura non credo che questa comprensione sia stata mai interrotta, io comprendo benissimo i colleghi francesi, italiani, inglesi e vedo che i problemi nascono solo tra i politici. Io e un regista italiano leggiamo gli stessi libri, abbiamo anche la Bibbia in comune, con lievi differenze, ma comunque una. Perché i nostri politici leggono libri diversi? La loro lettura della Bibbia è molto diversa».

Qual è la funzione del cinema ?
«Potrebbe essere quella di offrire alla gente la possibilità di evolversi, di approfondire, cioè di creare un ambiente culturale comune. La cosa più importante è che il cinema rispetti le proprie radici nazionali, che se ne prenda cura per mostrarle agli altri allo scopo di crescere insieme. Per fare un esempio, la Divina Commedia di Dante è un inno alla cultura italiana, non avrebbe mai potuto essere scritta da un tedesco. Lei ha letto la Divina Commedia?».

Sì, al liceo. Al terzo anno l’Inferno, al quarto il Purgatorio e al quinto il Paradiso.
«Siete una generazione fortunata».

Che cosa si studia in Russia?
«È da molto che non frequento le scuole superiori. Viviamo un periodo di cambiamenti continui, non solo dei piani educativi, ma anche del ministro della cultura, di tutti i vertici, di conseguenza tutto cambia. La gioventù odierna è molto cambiata».

Come?
«È molto politicizzata ed interessata alla vita del proprio Paese, sono in tanti a essere scontenti di ciò che accade. E soprattutto è molto infettata dalle tecnologie virtuali, i ragazzi leggono di meno, guardano di più, è tutto visuale. In più bisogna considerare che la Russia è un paese con tanti gruppi etnici diversi, tante religioni diverse e questo produce una situazione caotica nella vita, nello sviluppo dei giovani. Ci sono troppi contrasti tra le etnie, i culti religiosi non si trovano d’accordo. Per i ragazzi i valori umanistici diventano di difficile comprensione, perché vengono tirati da una parte e dall’altra da forze politiche diverse. Per capirci, oggi in Russia non c’è ancora una posizione ferma rispetto allo stalinismo, un giudizio. In Italia, bene o male, le acque si sono calmate con la condanna dell’eredità del Duce. Mentre lo stalinismo in Russia acquista seguaci».

La Russia, protagonista dei cambiamenti del XX secolo, non riesce a fare i conti col passato?
«Sì. I cambiamenti a cui l’Europa non si sentiva pronta, quelli immaginati dagli utopisti francesi, sono stati realizzati concretamente soltanto dai russi. Siamo i primi che hanno deciso di fare questo esperimento con il socialismo. Sembrava fosse tutto semplice, arriva il potere e poi andrà tutto bene. Non era così facile».

Ha detto che il film “Francofonia” ha cercato di porre alcune domande fondamentali: «Cos’è più importante, la cultura, la vita o lo Stato?». Per cosa dovremmo pagare con le nostre vite?
«Come uomo ordinario e non investito di potere, scelgo senz’altro la vita degli uomini, mi dispiace fare questa scelta, ma se vedo affondare una nave salvo la vita dell’uomo e non l’opera d’arte che sta affondando. Questo è per me evidente e penso dovrebbe esserlo anche per lo Stato. Lo Stato deve compiere la scelta di non fare guerre, persino se c’è in gioco l’indipendenza nazionale, per la Russia oggi la guerra è improponibile e inaccettabile. Nella seconda guerra mondiale nessun paese europeo si è rifiutato di sostenere Hitler con le proprie forze armate, tutti hanno invaso la Russia in un modo o in un altro. Dopo questa esperienza, ci rendiamo conto che se dovesse esserci una nuova guerra tutti si alleerebbero contro di noi. Perché? Chissà perché. La cosa più importante è mantenere la pace, mantenere la vita del Vecchio Mondo. Cultura e civiltà del Vecchio Mondo si possono mantenere solo evitando le guerre».

Nei suoi film le donne sono figure molte diverse: Eva Braun, Aleksandra, Emma Bovary, le donne della corte imperiale russa. Che cos’è, per lei, la donna?
«Una creatura sofferente, che però vince sempre. La donna può essere tranquilla tanto l’uomo morirà prima di lei, o per una malattia, o ucciso in guerra. Tante vedove sono le donne più felici del mondo. I rapporti tra le persone sono sempre complicati, nessuna religione ci aiuta a trovarne il fulcro. Il creatore ha fatto un grande errore creando l’uomo e la donna così diversi. Se la donna avesse potuto evitare di fare figli maschi sarebbe stato più facile. Il problema è la disparità: la disparità nasce dal fatto che la donna conosce l’uomo molto più profondamente di quanto l’uomo conosca lei, perché la donna è madre di maschi. Quindi lei vede il marito dopo aver cresciuto qualche figlio e dice: «Figurati se non ti conosco, so tutto di te», per me non sei un dio né un re. La figura del padre esiste raramente, ma deve essere una vocazione».

Una vocazione?
«È raro che un uomo viva secondo la propria vocazione. In genere un uomo si dedica a tutt’altro rispetto a ciò a cui è destinato, il 90 per cento delle persone vive così, in disaccordo con sé e con il suo destino. La maggior parte dell’umanità è abbastanza sfortunata, non trova sé stessa. Sono uomini che non conoscono la felicità, non conoscendo sé stessi. I politici sono malati e infelici. Come diceva Goethe, l’uomo più pericoloso è quello infelice. E noi siamo governati da persone infelici, di conseguenza siamo infelici. Una madre infelice non avrà figli felici. Bisogna essere felici».

Perché dice che l’oceano è l’uomo, mentre il fiume è la donna?
«Il mare è la libertà, è staccarsi dalle rive che magari non sono più amate. L’uomo ha bisogno della libertà, di quella libertà che ogni anno gli viene sottratta sempre di più, la donna ha bisogno di vedere le rive. Anche se sono lontane e si intravedono appena, sa che può portare la sua barca a riva. Cambia il paesaggio, il bosco, ma c’è sempre la riva a vista. Gli uomini del nord che pescano sui fiumi e i pescatori nell’oceano sono due tipologie di uomini opposti. Gli uomini portoghesi, nella terra della fine del mondo, erano attratti da una libertà promessa da un orizzonte sconfinato, la mancanza delle rive rappresenta la libertà. Erano i migliori navigatori del mondo, i più intelligenti e coraggiosi, con grande spirito di sacrificio».

C’è qualcosa che il cinema non può rappresentare ?
«Lo scorrere del tempo, l’unica cosa sulla quale il cinema non ha affermato il suo potere. Tenta di acchiapparlo, di sfruttarlo, di farlo lavorare a proprio favore, ma non ci riesce, e meno male. Il mistero più grande della civiltà è lo scorrere del tempo, questo mistero è nascosto nel Vecchio Mondo, non sta nelle Americhe, sta nascosto qui da qualche parte, in Europa».

In un’epoca invasa da orge visive, lei afferma la centralità del suono e della voce. Il suono è prioritario rispetto all’immagine?
«Sono due realtà parallele, il suono ha un suo compito artistico, l’immagine un altro. Per me il suono è prioritario, è naturale perché amo la musica più dell’immagine. La libertà dell’atto creativo, la libertà dell’opera d’arte è imprescindibile. Il più grande esempio di questa condizione è il compositore, nemmeno uno scrittore è libero. Il compositore è infinitamente libero, nessuno sa da dove arrivi la fantasia sonora che lui trasmette, mentre nel caso dello scrittore si può decodificare subito ogni frase, cercare di capire perché ha scritto quello che ha scritto, con il suono non si può. Come si fa a stabilire da dove scaturisca la melodia di Čajkovskij? Non lo sapremo mai».

Perché non ha fatto il compositore ?
«Umili origini sociali. Sono troppo primitivo, i miei genitori non avevano possibilità di farmi suonare uno strumento, di acquistarlo. Abbiamo vissuto nei continui trasferimenti di mio padre, un militare, vivevamo in ristrettezze economiche. Sognavo di fare il regista alla radio, purtroppo però la radio era già in difficoltà. Oggi seguo più la radio che la televisione».

Il suo film “La voce solitaria dell’uomo” fu rifiutato come film di diploma dalla VGIK nel 1978 e proiettato dieci anni più tardi.

Qual è il suo rapporto con il potere? Qual è il rapporto della politica con il cinema in Russia?
«Mi fa tremare l’idea del potere. Innanzitutto è un mestiere diverso, l’artista e il presidente fanno mestieri diversi. Il presidente, italiano o russo, ha il compito di mantenere l’ordine nel suo paese, questo ordine inevitabile è rappresentato dalla Costituzione, dalle forze armate, dalla polizia. Il mio compito come artista è quello di continuare a dire all’uomo “sei libero”. Io come artista e il presidente abbiamo avuto maestri diversi, i miei insegnanti di vita mi dicevano “leggi questo, impara questo dalla letteratura”, mentre al presidente dicevano “bada a questo, stai attento a questo, cerca di limitare quest’altro”. Il presidente prende le decisioni sotto il peso dei suoi obblighi, della legge, della propria cultura e responsabilità. Lui è tenuto a qualcosa, io sono libero. Il presidente dice “io comincio la guerra”, io gli rispondo “non hai diritto di cominciare la guerra, devi fare di tutto per non farla”, quindi ci sarà sempre un problema tra artisti e potere».

Quali sono le persone di cinema che considera più vicine?
«Gus Van Sant, Meryl Streep, Martin Scorsese. Sicuramente Victor Kossakovski, un regista da Oscar».

 I suoi film sono finanziati dal ministero della cultura russa?
«Da anni non sono finanziati dal ministero, e pochissimi registi possono contare sul supporto del ministero della cultura. Anche con il supporto del ministero non c’è garanzia che il film soddisfi i loro criteri. I film finanziati possono essere anche proibiti. La censura non esiste più in Russia, ma nell’arte e nella cultura sì».

La sua fondazione è stata accusata di malversazioni. Esiste ancora o è stata chiusa?
«La fondazione esiste, c’è stato un tentativo fallito di chiuderla. Quando l’Fsb (il Servizio federale per la sicurezza della Federazione russa, Ndr.) ha tentato di chiuderla è intervenuto il presidente Putin e ha impartito l’ordine di “lasciarli in pace”. Non so perché mi abbia difeso, siamo sopravvissuti, lavoriamo, siamo una società senza scopo di lucro, aiutiamo i giovani a realizzare le opere prime. Collaboriamo con il cinestudio Lenfilm, il più antico studio cinematografico russo a San Pietroburgo, dove ho lavorato per 42 anni. Hanno deciso che sono loro a finanziare le opere prime dei registi. Oggi per un esordiente è più facile produrre un film da noi che in Italia, perché c’è una rete di aiuti, la Fondazione, Lenifilm, i produttori a Mosca».