Biografie di combattenti, raccolte in versi, memorie. Tra censure e divieti, ecco come i fondamentalisti afghani alimentano il loro immaginario. «Quando beviamo l’acqua, grazie al potere di Dio, miracolosamente diventa dolce»

«Sono nato nel piccolo villaggio di Zangabad nel 1968. Zahir Shah, il re pashtun che ha governato tra il 1933 e il 1973, era ancora sul trono». È l’inizio della biografia di mullah Abdul Salam Zaeef, tra i fondatori del movimento dei talebani, funzionario di alto livello del primo Emirato islamico d’Afghanistan tra il 1996 e il 2001.

Combattente contro i sovietici negli anni Ottanta del secolo scorso, protagonista della progressiva ascesa dei talebani negli anni Novanta, come ambasciatore dell’Emirato a Islamabad, in Pakistan, nel 2001 è testimone diretto dei momenti che portano al rovesciamento militare dell’Emirato, dopo gli attentati dell’11 settembre. Sbattuto nel carcere di massima sicurezza di Guantanamo, rilasciato nel 2005 senza accuse formali, diversi anni dopo incontra a Kandahar, nel profondo sud dell’Afghanistan, due ricercatori stranieri, Alex Strick van Linschoten e Felix Kuehn. I due, alle prese con un progetto di catalogazione e raccolta di fonti primarie sui talebani, lo convincono a redigere una biografia. Nasce così “My Life with the Taliban. Abdul Salam Zaeef”. Pubblicata nel 2011 dalla casa editrice Hurst, è rilevante ancora oggi. A partire dalle pagine conclusive: «Il più grande sbaglio dei politici americani finora è la loro profonda mancanza di comprensione del loro nemico».


Raccontati perlopiù dai media, i talebani in questi lunghi anni di clandestinità e guerriglia, costata la vita a decine di migliaia di afghani, si sono raccontati poco all’esterno. Ma hanno “parlato” molto al proprio interno. Lo dimostra un altro libro curato da Alex Strick van Linschoten e Felix Kuehn, “The Taliban Reader. War, Islam and Politics” (Hurst 2018). Circa seicento pagine di documenti, per la maggior parte pubblicati sui canali di comunicazione del gruppo, prima cartacei poi digitali, tra resoconti personali, brani di biografie, interviste, dichiarazioni ufficiali e necrologi. Una lente privilegiata per comprendere l’evoluzione del movimento, a partire dagli inizi.

IL JIHAD CONTRO I SOVIETICI
In chiave storica, ciò che più ha segnato l’identità e la coesione dei giovani studenti religiosi che nel 1994 avrebbero dato vita al movimento dei talebani è il jihad contro i sovietici, scrivono i curatori di “The Taliban Reader”. Vale anche per mullah Zaeef, che nel 1983, a soli 15 anni, torna a Kandahar per combattere i russi, rientrando in Afghanistan dal Pakistan dove era rifugiato. «Sono partito per Chaman in un bus con nient’altro che i vestiti e 100 rupie pachistane in tasca», scrive.


I mujaheddin non sono soltanto afghani. Ci sono anche quelli che oggi definiamo foreign fighters, i combattenti stranieri. In Afghanistan vengono chiamati gli “arabo-afghani”. Tra loro c’è un giovane algerino che fino al 1983 non sapeva «neanche dove fosse l’Afghanistan». Poi «presi in mano l’equivalente arabo del National Geographic, Majalla al-Mujtama’, gestito dalla Fratellanza musulmana del Kuwait, e trovai una fatwa», scrive Abdullah Anas in “To the Mountains. My Life in Jihad from Algeria to Afghanistan” (Hurst 2019, scritto con Tam Hussein). La fatwa è redatta da un gruppo di autorevoli studiosi islamici, tra cui il clerico palestinese Abadallah Azzam, l’inventore della carovana del jihad, l’internazionale jihadista. Per tutti i musulmani maschi, andare a combattere il jihad in Afghanistan è un obbligo religioso.


Sono gli anni in cui a Peshawar Azzam e Osama bin Laden gestiscono una sorta di anagrafe dei combattenti stranieri. I più conosciuti sono “gli arabo-afghani”. Abdullah Anas nelle sue memorie ne smonta il mito. «Molti dei fratelli arabi sono fogli bianchi. Il loro cuore era pieno di zelo, la loro testa era piena di Sylvester Stallone e visioni del paradiso». La maggioranza di loro ha letto un testo cruciale di Abdallah Azzam: una raccolta di aneddoti miracolosi. I mujaheddin dispongono della fede. Dalla loro parte c’è Allah.


In “I Am Akbar Agha” (First Draft Publishing 2020), libro di memorie scritto dal combattente Sayyed Mohammad Akbar Agha, l’autore racconta il viaggio da Quetta, in Pakistan, verso il deserto meridionale afghano di Registan. Le condizioni climatiche sono estreme. C’è un fiume, ma l’acqua è amara, ripetono i residenti. «Quando beviamo l’acqua, grazie al potere di Dio, miracolosamente diventa dolce», ricorda Akbar Agha. Il topos letterario più comune riguarda però i corpi dei mujaheddin morti in battaglia. «Alcuni martiri odoravano naturalmente, senza che venissero usati profumi. Inoltre, era miracoloso che i loro corpi restassero intatti nelle loro tombe».


Dall’esperienza del jihad anti-sovietico sarebbero nate poi tutte le principali tendenze del jihadismo contemporaneo, ricostruiscono gli autori di “The Arabs at War in Afghanistan” (Hurst 2015): Leah Farrall, una ex analista dell’intelligence per il controterrorismo della Polizia federale australiana, e Mustafa Hamid, ex combattente, autore di altri dodici libri tra biografia e cronaca storica.

PAROLA DI MULLAH
Nella sua biografia, mullah Zaeef, futuro ambasciatore dei talebani in Pakistan, racconta l’entusiasmo per la vittoria contro i sovietici, che si ritirano nel 1989. Gli studenti religiosi tornano nei loro villaggi, nel triangolo fertile tra i due rami del fiume Arghandab, nella provincia meridionale di Kandahar. Ma la guerra civile tra i gruppi mujaheddin dissemina odio e sangue. Anche le comunità rurali sono minacciate. Occorre reagire. Dopo mesi di incontri e discussioni, nasce il movimento dei talebani. «Il momento fondativo di quel che sarebbe diventato il movimento dei “talebani” si è tenuto nel tardo autunno del 1994. Qualcosa come quaranta-cinquanta persone si sono riunite nella moschea bianca di Sangisar», scrive mullah Zaeef. L’ascesa è graduale, ma implacabile: da Kandahar a Zabul, poi l’Helmand e l’Uruzgan, Herat nel settembre 1995, Jalalabad e Kabul nel settembre 1996. Viene instaurato il primo Emirato.


I talebani sono ancora poco conosciuti. È necessario spiegarne nascita, obiettivi, metodi. A Kandahar, tramite la radio ufficiale La voce della sharia, è lo stesso Amir ul-mumineen, l’Emiro dei fedeli e dei combattenti mullah Omar, a rispondere. «La gente potrebbe chiedersi: Quando è cominciato il movimento? Chi c’era dietro? Chi lo finanzia? Chi lo dirige e gestisce? L’inizio del movimento risale a quando ho riposto i miei libri nella scuola di Sangisar, ho preso con me un’altra persona e abbiamo camminato fino all’area di Zanjawat. Lì ho preso in prestito una motocicletta da un certo Surur e siamo andati a Talikan. Questo è stato l’inizio del movimento».


L’inizio della fine, invece avviene quando, conquistata Jalalabad, ereditano un ospite particolare, Osama bin Laden, cacciato dal Sudan. I rapporti non sono facili. Nel novembre 1996, raccontano gli autori di “The Arab at Wars”, «un elicottero è in attesa all’aeroporto di Jalalabad». Osama bin Laden è stato convocato da mullah Omar, che governa l’Afghanistan da Kandahar. Lo sceicco saudita è convinto che i talebani vogliano giustiziarlo. Ha contravvenuto ai loro ordini, proclamando nell’agosto precedente la sua “Dichiarazione di guerra contro gli Stati Uniti”. Osama Bin Laden esce indenne dall’incontro con mullah Omar, dopo una reprimenda. Tre anni dopo, pianifica e compie gli attentati alle Torri gemelle e al Pentagono. I talebani non erano al conoscenza del piano, ma ne pagano le conseguenze, riepiloga mullah Zaeef nelle sue memorie. Seguono gli anni del jihad, della resistenza alla nuova occupazione.

POESIA DI RESISTENZA
Per capire come i talebani vivano quegli anni, vale la pena leggere “Poetry of the Taliban” (a cura di Alex Strick van Linschoten e Felix Kuehn, con introduzione di Faisal Devij, Hurst 2009). Una raccolta di 235 poesie scritte, recitate o cantate dai “turbanti neri” dagli anni Novanta del secolo scorso, fino al 2008. Costante è la percezione che la lotta contro gli stranieri sia legittima, l’occupazione un’ingiustizia. Come nella poesia in cui si contrappongono le luci di Bagram, la base militare cuore dell’intervento militare della Nato, alle case bombardate degli afghani durante l’Eid, la festività islamica: «Durante il vostro Natale, Bagram è accesa e luminosa, durante il mio Eid, perfino i raggi del sole sono morti. All’improvviso, le vostre bombe portano la luce. Nelle nostre case, perfino le lampade a olio sono spente». Dall’agosto scorso, i talebani sono tornati al potere. Il ministro della Cultura è mullah Khairullah Khairkhwa, anche lui tra i fondatori del movimento, nel 1994. È alle prese con un ambizioso progetto di incontri culturali e poetici, a livello nazionale. Per i poeti dissidenti, la censura. O la galera.