L’irruzione dei gilet gialli e del movimento anti-green pass. Il concetto di “esperienza” al posto della coscienza di classe. Il declino dei sondaggi. Un grande sociologo spiega come deve cambiare la vita pubblica

Come fare politica in un tempo dominato dalle emozioni? Negli ultimi anni i grandi movimenti di piazza, violenti e senza leader come quello dei gilet gialli, spontanei e duraturi come quello degli anti-green pass, hanno sconnesso il tessuto sociale. Secondo Pierre Rosanvallon, la società deve essere pensata con strumenti nuovi. Per il sociologo francese oggi le emozioni determinano le nostre azioni politiche. I populisti hanno saputo sfruttarle, i “politici della ragione” le hanno negate, ma rimane una terza via: quella basata sulle “prove”, ovvero le difficoltà vissute individualmente dai cittadini. Le prove determinano un cambiamento da una dimensione sociale a una dimensione soggettiva della politica, scrive il celebre professore del Collège de France nel libro “Les Épreuves de la vie. Comprendre autrement les Français” edito in Francia da Seuil.

L’autore distingue tre tipi di prove: le prove dell’individualità, le prove del legame sociale, le prove dell’incertezza. Per Anne Hidalgo, sindaco di Parigi e candidata alle elezioni presidenziali, le ricerche di Rosanvallon sono la base per una «nuova arte di governare», mentre per Marine Le Pen rappresentano «una visione riduttiva» del motore elettorale. L’Espresso ne ha discusso con l’autore nella sua casa di Parigi.


Cosa intende per “prova” e perché questo concetto è innovativo?
«La nozione di prova ha un duplice significato. Si riferisce all’esperienza della sofferenza, di una difficoltà personale, del confronto con un ostacolo che scuote le persone nel profondo. Poi corrisponde anche a un modo di percepire il mondo, di comprenderlo e criticarlo reagendo di conseguenza. Questa idea è nata dall’osservazione del movimento dei gilet gialli e dall’eco internazionale del movimento MeToo. Ho studiato le origini di questi movimenti partendo dalle traiettorie degli individui, dalle prove della loro vita».

 

Negli anni ’60 lo slogan di alcuni movimenti femministi era “il personale è politico”. Qual è la differenza tra il concetto di “prova” e questo slogan femminista?
«Ciò che descrivo è la continuazione e lo sviluppo di un movimento di centralità della soggettività iniziato nel 1968, il primo grande momento di rottura. Questo slogan femminista degli anni ’60 è in linea con il movimento MeToo, ma qual è la differenza? Nel 1968, coloro che proponevano questo slogan rappresentavano movimenti d’avanguardia, una minoranza nella società. Oggi questa rivoluzione della soggettività si è democratizzata e universalizzata, non ci sono più solo piccoli gruppi militanti, ma l’integrità della persona è diventata una domanda sociale assolutamente generale. Ciò che si condivide nella società è la ricerca che ognuno possa essere rispettato nella sua unicità».


In questo nuovo contesto, lei sottolinea l’importanza delle patologie dell’uguaglianza e il ruolo delle emozioni...
«Siamo arrivati ad un momento in cui questa generalizzazione della soggettivazione del mondo deve essere concettualizzata. Così facendo si affrontano i problemi dell’integrità personale, che è stata la grande questione dei movimenti femministi e del MeToo, e si prende in considerazione ciò che ho chiamato le patologie dell’uguaglianza, cioè il disprezzo, la discriminazione, le ingiustizie e anche le prove dell’ordine dell’incertezza. Questo è un grande movimento storico. L’umiliazione, la violenza, lo stupro e l’ingiustizia sono radicati nella storia dell’umanità, ma oggi vengono sentiti e affrontati in modo diverso perché vengono avvertiti come attacchi personali, mentre in passato ciò che era dominante era vedere come il gruppo in cui si era integrati progrediva».

 

Lei scrive: “La costituzione della classe operaia era inseparabile dall’espressione di una coscienza di classe. Essere un lavoratore significava riconoscere l’appartenenza a una comunità di vita e di lavoro che aveva la funzione di integrare gli individui”. La società di classe permetteva di avere una piccola patria. Se il concetto di “prova” sostituisce quello di interesse di classe, oggi possiamo ancora parlare di comunità?
«Sì, possiamo sempre parlare di comunità. C’è una comunità di prove, cioè una comunità di esperienze. Coloro che si ribellano alla stessa cosa, che si definiscono come coloro che vivono lo stesso calvario, formano una comunità. Nel campo del lavoro, ad esempio, nei nostri paesi assistiamo ad una proliferazione di autisti e facchini di tutti i tipi, le nostre strade sono piene di furgoni, ciclisti, motociclisti che distribuiscono pasti o pacchetti. Molti di loro sono lavoratori autonomi, non appartengono a una classe nel senso che non sono dipendenti di un’azienda, ma condividono la stessa esperienza delle condizioni di lavoro, di precarietà, e quindi possiamo dire che le persone “uberizzate” formano una comunità di esperienza. Molti movimenti di donne sono prima di tutto una comunità di esperienza, cioè condividono il sentimento di essere minacciate dalle stesse aggressioni, dalle stesse negazioni. Nello stesso modo il disprezzo ha alimentato una comunità di esperienza per i gilet gialli. Queste comunità di esperienza sono diverse dalle vecchie comunità sociali perché spesso sono più temporanee e specifiche. Non possiamo immaginare un sindacalismo delle prove, mentre possiamo immaginare un sindacalismo della condizione operaia. Ma d’altra parte, questo cambiamento porta a un altro tipo di comunità, più direttamente democratica, perché tutte queste prove mettono in discussione il progetto di una società di uguali, di una democrazia come forma di società».

 

Nel suo libro lei osserva la relativa assenza dei sindacati nei diversi grandi movimenti di piazza degli ultimi anni in Francia. Molti millennials oggi in Italia non hanno mai sentito parlare di sindacati nella loro vita. Sono destinati a scomparire?
«Non credo, se non altro per ragioni istituzionali. I sindacati potranno riconquistare un pubblico sociale generale se si presenteranno come difensori delle prove nelle aziende, se, per esempio, la questione del burn out o il problema delle molestie sessuali saranno riconosciuti come oggetti di azione sindacale. L’azienda deve essere un luogo di relazioni sociali democratiche, in cui la dominazione non passa».

 

Lei scrive: “La vera vita dei francesi non è nelle grandi teorie o nelle medie statistiche”. Ritiene che i sondaggi oggi siano strumenti ormai obsoleti per misurare la temperatura di un Paese?
«I sondaggi non sono sufficienti, perché il loro scopo è affidarsi alla tecnica dei campioni rappresentativi. Ma cos’è un campione rappresentativo? Un campione che rappresenta la diversità delle categorie sociali, dei sessi, delle età e dei territori. Questo non basta, bisogna trovare modi diversi di conoscere la realtà sociale, che tengano conto delle prove».

 

“L’approccio al mondo sociale attraverso le prove mostra che questi processi disegnano un nuovo internazionalismo”. Che cosa intende?
«I grandi temi che strutturano le tre categorie di prove che ho descritto sono all’opera in tutto il mondo. Le rivoluzioni arabe sono state guidate dalle parole d’ordine dignità, rispetto e onore. Erano critiche alla corruzione che rivendicavano il diritto fondamentale dell’individuo ad essere rispettato nella sua dignità. Questo è un filo comune sia che si parli di BlackLivesMatter, delle rivoluzioni arabe o dei movimenti femministi in qualsiasi parte del mondo. Oggi c’è un nuovo linguaggio dell’universalismo democratico».

 

In questo contesto, quale risposta politica bisogna dare alle nostre emozioni?
«I partiti populisti non hanno capito che bisogna affrontare l’origine di queste emozioni. Ci sono tre modi di affrontare le emozioni. Il primo è la logica populista dell’eccitazione emotiva. Il secondo è la negazione delle emozioni, la politica della ragione, ridotta alla gestione di interessi oggettivi e misurabili, di cui il presidente Emmanuel Macron in Francia è un buon esempio. Per lui tutte queste emozioni sono solo fantasie, oscure passioni che non corrispondono a nulla di razionale. La terza via è una politica democratica delle prove, consiste nel prendere in considerazione i diversi tipi di prove, avere una politica della dignità, del rispetto, della lotta contro la discriminazione, mettendo più enfasi sul diritto radicale delle persone all’integrità. L’idea di questa terza via è ridefinire gli oggetti stessi della politica e dare alla gente la sensazione di essere rappresentata».

 

Pensa che l’estrema destra possa vincere le prossime elezioni presidenziali francesi?
«No. Ci possono essere disastri, ma non ne vedo oggi, indipendentemente dalla questione Zemmour. La competizione elettorale non è solo una questione di programmi, è anche legata alla capacità d’incarnazione dei candidati, Marine Le Pen non ha un così grande potere di attrazione. Qualcuno dell’estrema destra potrebbe vincere se riuscisse ad avere una personalità potente, ma non è questo il caso».

 

E Marion Maréchal?
«Ha 28 anni, non so cosa diventerà. Per il momento, almeno, non è così. Quando François Mitterrand aveva 28 anni qualcuno si poteva aspettare che sarebbe diventato un presidente eletto dalla coalizione di socialisti e comunisti?».