Poeta, partigiano, fu condannato a nove anni per aver plagiato un giovane già maggiorenne. Senza essere difeso neppure dai partiti di sinistra. Un documentario appassionante racconta la sua odissea
Ci sono storie così esemplari e crudeli da sembrare destinate a esiti opposti: essere dimenticate o imporsi alla memoria, magari in forma narrativa. Quella di Aldo Braibanti è una di queste storie. Fino a oggi è stata sostanzialmente rimossa: troppo dolorosa e imbarazzante, oltre che per chi lo perseguitò, per chi non fece nulla o quasi, partiti di sinistra in testa. Adesso però “Il caso Braibanti”, appassionante documentario di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese
(in streaming fino a fine anno su #iorestoalcinema e dal 24 al 31 dicembre nella sala virtuale del cinema La Compagnia), riapre i giochi con testimonianze e materiali inediti che danno nuovo smalto a questo personaggio eretico, inclassificabile, nato nello stesso anno di Pasolini (a cui curiosamente assomigliava) e come lui destinato a tirarsi addosso il peggio di un’Italia retriva, feroce e così fascista da non sapere nemmeno di esserlo. Un’Italia che nel ’68, l’anno del processo, poteva condannare un uomo accusandolo di aver plagiato un giovane già maggiorenne, Giovanni Sanfratello, ma figlio del sindaco democristiano della sua città, dunque destinato a finire addirittura in manicomio, dove subirà 40 elettrochoc, del tutto inutili fra l’altro, per spingerlo a lasciare chi lo aveva “plagiato”.
Nel 2021 ricorrono 40 anni dall’abolizione del reato di plagio, accusa che come dice lo stesso Braibanti era sempre usata a fini politici. Infatti lo stesso giudice che l’anno seguente guiderà il processo Valpreda infligge a Braibanti nove anni di carcere, poi ridotti a quattro e infine a due per il suo passato da partigiano. La persecuzione di cui fu vittima, difeso invano da figure come Elsa Morante, Dacia Maraini, Moravia, Eco, lo stesso Pasolini e soprattutto Pannella, non deve infatti mettere in ombra la figura così anomala e insieme esemplare di questo poeta, artista, filosofo (ma sempre dilettante come teneva a dire) che incrocia molte delle migliori intelligenze di quegli anni.
Scandite dai ricordi di suo nipote Ferruccio, da uno spettacolo teatrale scritto dallo stesso Palmese e dal lungo discorso pronunciato in aula dal senatore Lo Giudice (Pd) nel 2014, all’indomani della sua morte, nel film scorrono le tappe di un’esistenza improntata a una solitaria, ostinata ricerca di libertà. A 17 anni diffonde un volantino antifascista nel suo liceo di Padova. Se la cava con un 6 in condotta per l’età e gli ottimi voti. Partigiano prima nelle fila di Giustizia e Libertà e poi del Pci, arrestato una prima volta con Ugo La Malfa, la seconda finisce in mano ai torturatori Koch e Carità. Lo salva la madre che con sprezzo del pericolo torna a prenderselo vomitando insulti in faccia ai boia. Braibanti sopporta l’orrore recitando mentalmente Baudelaire, e forse già pensa al teatro.
Nel ’56 esce dal Pci, non per l’Ungheria ma in odio al centralismo democratico. Negli anni Sessanta è accanto a artisti come Carmelo Bene e Alberto Grifi, ma anche alle sue amate formiche, che alleva e studia in casa come mostra un servizio di Tv 7 del ’66. Fra i tanti testimoni della sua parabola spiccano Piergiorgio Bellocchio, Alessandra Vanzi, Elio Pecora, che ha forse le parole più dure e necessarie: «Oggi che tante altre libertà sono così in pericolo, tutto questo va ripetuto infinitamente».
Intanto Gianni Amelio, che già aveva intervistato l’anziano Braibanti nel suo bellissimo “Felice chi è diverso”, prepara da mesi in gran segreto un vero e proprio film su di lui che verrà girato intorno a Piacenza, dove l’intellettuale era nato. Titolo: “Il signore delle formiche”. Il caso è riaperto.