Nel documentario presentato alla Mostra del Cinema l’esistenza e il futuro di una zona industriale si uniscono alle preoccupazioni dei movimenti globali per il clima

Il mondo sta bruciando, molte specie sono a rischio di estinzione e noi stessi siamo in pericolo. Bisogna, perciò, cambiare stili di vita e compiere scelte ecologiche. E dell’industria, che facciamo? È una domanda che ricorre nel nostro film “Il pianeta in mare”, dedicato alla vita e alle storie del lavoro a Porto Marghera. Siamo contenti che sia uscito nelle sale proprio nella settimana di forti mobilitazioni globali per il clima, dopo il Summit mondiale del Clima all’Onu e le manifestazioni in 185 Paesi al mondo organizzate dal movimento internazionale Fridays for Future lanciato da Greta Thumberg. Il tutto produce un’attenzione crescente e una forte pressione sui governi nazionali, che sta spingendo molti governi ad avanzare proposte di Green Deal e Green Change, anche in Italia, sperando che siano autentiche ed efficaci.

In questo quadro può sembrare contraddittorio raccontare una zona industriale come Marghera, simbolo di violenze e ferite che hanno sconvolto equilibri ambientali e vite umane nell’ultimo secolo. Molti pensano che Marghera vada semplicemente eliminata e, anzi, c’è chi pensa che sia stata già eliminata. In tanti, quando stavamo realizzando “Il pianeta in mare”, ci chiedevano perché mai facessimo un film su un luogo ormai superato, svuotato, consegnato alla storia. Cosa c’è ancora a Marghera? Esiste ancora qualcuno lì dentro? Questo ci siamo sentiti chiedere più volte e questo ci ha convinti che fosse proprio necessario fare questo film. Perché a Marghera, in quella che è ancora oggi una delle zone industriali più grandi e complesse d’Italia e d’Europa, non solo ci sono ancora molte vite e molte storie, ma anche enormi sfide aperte, proprio quelle che uniscono l’esistenza e il futuro di una zona industriale alle preoccupazioni dei movimenti globali per il clima.

È possibile bonificare terre inquinate ristabilendo equilibri ambientali fin qui deturpati? Un’industria chimica che non inquini e anzi ricicli? Ottenere combustibili da materie prime alternative a quelle fossili? Ristrutturare e riconvertire grandi impianti? E come ridisegnare la logistica mercantile e industriale al fine di ridurre l’impatto ambientale del trasporto? Come reimmaginare il rapporto tra città e zona industriale?
Sono le domande e gli orizzonti di riflessione e progettazione ben presenti nel film, nei pensieri e nei dialoghi di molti protagonisti.

Ripensare una zona industriale come Marghera, come molte altre in Italia e non solo, significa ripensare il nostro rapporto con le risorse, con l’ambiente e con la nostra vita. Significa interpellare la responsabilità di governi e grandi gruppi industriali, dalle cui scelte dipende buona parte del nostro futuro.

La sfida del cambiamento climatico non può essere vinta solo con il (pur necessario) cambiamento dei comportamenti individuali e quotidiani (consumi consapevoli, mobilità sostenibile, diete alimentari, risparmi energetici, raccolte differenziate e altro), ma ha bisogno del mutamento radicale e complesso di grandi processi produttivi. A Marghera sono presenti quasi tutti: la raffineria, la chimica, la siderurgia, la metalmeccanica, la cantieristica, l’industria agro-alimentare, la grande logistica, la ricerca applicata.

Cambiare Marghera in chiave ecocompatibile significa cambiare questi processi, rendendoli sostenibili e nello stesso tempo creando nuovo lavoro. Significa, insieme, ridare centralità al lavoro e salvare il pianeta. Il cui futuro passa anche per questo luogo che Alberto D’Amico, cantautore veneziano, cinquant’anni fa definì, appunto, “Il pianeta in mare”.