Una giovanissima costretta a prostituirsi. Un poliziotto che raccoglie in una chiavetta Usb le sconvolgenti testimonianze di decine di donne sfruttate. E due cineaste decise a trasformare quelle storie in una durissima denuncia. Arriva dal Perù il docufilm "By the name of Tania" .

«Non è il mio corpo, non sono più io …». La voce incede come una barca sull’acqua torbida del fiume, emerge da una profondità indicibile, si addentra nella vegetazione peruviana della foresta amazzonica, mentre la pioggia continua a cadere. «Prima di guadagnare, devo restituire il debito: per essermi rifiutata di bere con un cliente - sono minorenne, è vietato - 200 soles, per essere stata ribelle, 200 soles…».
Come stare accanto a una ragazzina costretta alla tratta, mentre ricorda l’infanzia, la brutalità della nonna, bambine in vendita e clienti violenti, e stupratori che provocano aborti?
Con By the name of Tania, proiettato in anteprima italiana a Firenze al 60º Festival dei popoli, Bénédicte Liénard & Mary Jiménez - cineaste belghe già coautrici - hanno raccolto l’Sos di un poliziotto, obbligato a operare senza mezzi: il dono di una chiavetta usb con 45 testimonianze scritte di ragazze violate. Da lì in poi hanno chiesto aiuto al cinema. Perché solo ricorrendo a una drammaturgia  - come già avvenuto nella storia del documentario - era possibile addentrarsi nelle zone d’ombra della tratta, nei meandri inespugnabili di un Perù dove lo Stato è assente e dove la popolazione manifesta tutta la sua ostilità rispetto a uno occhio esterno.

In questa conversazione Liénard e Jiménez narrano le inenarrabili ricadute del patriarcato e del capitalismo sulla soggettività inerme delle ragazzine e come hanno tessuto il loro sguardo di donne sul mondo, uno sguardo libero che non rende una donna violata capro espiatorio di una società,  il perché del loro essersi rivolte verso una sola ragazza - anche lei con un vissuto di violenza subita nell’alveo familiare -  per incarnare Tania: nome di lavoro della protagonista.

Qual è la genesi di questo progetto?
Liénard: «Lavorando a un altro film in Perù, eravamo venute a conoscenza della storia di un giornalista un tempo minatore in cerca d’oro a Lima. L’uomo voleva fuggire con la sua amante, una prostituta, ma per lei era impossibile, a meno di rischiare la morte. Siamo rimaste molto toccate: dallo sfruttamento delle ragazze e dei loro corpi nella prostituzione e da quello del corpo degli uomini nell’estrazione dell’oro. Così ci siamo messe a studiare, abbiamo interrogato antropologi, siamo state nelle miniere, sempre più in profondità. Poi qualcuno ci ha parlato del poliziotto che si vede nel film».

Che interpreta se stesso…
L. «Sì, Vasquez, uno specialista della tratta, vuole davvero salvare le ragazze. Siamo andate a Iquitos per incontrarlo e instaurare fiducia. Quando stavamo per ripartire, è venuto all’aeroporto e ci ha consegnato la chiavetta usb».

Registrazioni vocali?
Jiménez: «Scritte».

L. : «È stato allora che abbiamo deciso di assumerci la responsabilità del film. Eravamo davanti a una miniera di testimonianze di donne. Ma abbiamo scelto di averne una sola nel film, “Tania”».

Perché una sola?
J. : «Una sola donna che incarnasse le altre. Non volevamo la frontalità della vittima, mostrare le ragazze nel bordello, assecondare un desiderio distorto del pubblico. Siamo donne e per noi è cruciale il modo in cui rappresentiamo il mondo, nutrire una nuova soggettività politica cosciente. Al tempo stesso ci premeva fosse chiaro il processo della tratta, il capitalismo e ciò che produce».

A questo punto dovevate trovare la protagonista…
J. : «Difficile, non doveva interpretare, ma essere. In più doveva avere al massimo 16, 17 anni. Abbiamo cercato a lungo. Per un altro film eravamo state in un rifugio per ragazze vittime di violenza sessuale. Tra queste c’era Lidia (Tanit Lidia Coquinche Cenepo, ndr). Non era stata una prostituta, ma aveva una storia di stupro subito dal patrigno. A Iquitos c’era stato un casting tradizionale con centinaia di ragazze, però non andavano bene. Allora ci è tornata in mente Lidia e le ferite che premevano attraverso la sua pelle. Così abbiamo pensato di tornare al rifugio a Lima: era ancora lì. Nel frattempo era diventata maggiorenne, e la direzione ci ha concesso di farla uscire per lavorare con noi».

Come ha reagito quando le avete proposto il progetto?
J.: «All’inizio non le pareva vero di poter uscire dal rifugio. Poi piano piano le abbiamo raccontato le storie e ha capito che sarebbe stato un lavoro lungo, ma che per questo  sarebbe stata pagata».

Com'è stato lavorare con lei?
L.: «Non le abbiamo mai detto, dici questo, no. Le proponevamo una situazione. Allora le dicevamo, torna a casa, lavoraci e portala con le tue parole. Enorme norme è stato il lavoro fatto sulla fisicità della sua voce. Lidia nutriva le storie delle deposizioni con la propria tremenda esperienza. Così è stato quando va al commissariato a parlare dello stupro.

Un attraversamento immane.
L.: «Sì, tempo fa ho incontrato una donna che lavora sui traumi da stupri di guerra e sui differenti stadi di coscienza della violenza subita. Al primo la donna non la riconosce. Al secondo, si rende conto che è accaduto. Al terzo riesce anche a parlarne un po’, al quarto realizza la cosa e può agire. Con noi Lidia ha attraversato tutti gli stadi: nel momento in cui ha parlato col poliziotto e alla prima al Festival di Berlino, quando ha visto il documentario per la prima volta e si è spinta fino a parlare pubblicamente: «Quella di Tania non è la mia storia, ma anche io sono stata violata e a nome di tutte le donne faccio questo film».

La sua vita fuori dal film è profondamente cambiata, il che non sempre avviene coi documentari. Invece è  un nodo cruciale.
J.: «Prima che iniziassero le riprese, è stata chiamata a Lima a testimoniare al processo contro il patrigno, mi ha detto che la madre le aveva chiesto di negare. Voleva un consiglio. Le ho risposto che era responsabilità sua. Temeva la reazione della madre. Le abbiamo pagato il biglietto e quando è tornata ci ha raccontato: «Ho detto che è vero. Mia madre non mi ha mai creduta, l’avevo già persa».

A proposito di linguaggio filmico, l’imprinting emotivo del film è dato da questo diffuso ricorrere al fuori fuoco…
J.: «I ricordi appaiono in modo nebuloso, si mostrano scompaiono. D’altra parte, nei confronti del reale, non volevamo porci con quella attitudine predatoria che di solito è propria di noi filmmaker…».
L.: «Tania non sa se ciò che vede è sogno o realtà».

Perché la sofferenza è troppo grande. Il fuori fuoco è anche protezione da uno sguardo irrispettoso…
L.: «Assolutamente sì. A Virginie (Surdei, direttora della fotografia e operatrice alla macchina a mano, ndr), dicevamo: «Non afferrare, accarezza, abbraccia».

La campagna Indifesa di Terre des Hommes sulla Condizione delle bambine e delle ragazze nel mondo testimonia quanto sia stato fatto e quanto sia ancora da fare  su aborti selettivi, matrimoni precoci, mutilazioni genitali, violenza di genere, mancato accesso all’istruzione. Nel film, la “fiaba” che la sfruttatrice trans racconta alla bambina è espressione agghiacciante della “mala educazione” che, anche attraverso un uso coattivo dei social, indirizza le ragazzine a diventare oggetto, possesso degli uomini, con la promessa illusoria dell’oro…
J. : «Il Perù è un Paese senza Stato. Sulla costa c’è una parte più ricca e “occidentale”, ma le montagne e la giungla non appartengono a nessuno. Molte ragazze scompaiono.  Non è come l’Italia dove c’è l’istruzione libera e gratuita o assistenza medica. Non c’è nulla».
L.: «La questione dell’istruzione lì è contraddittoria. Vasquez e i suoi uomini vanno nelle scuole a spiegare il fenomeno della tratta, a mettere in guardia le ragazze dai magnaccia - spesso trans - che promettono loro un lavoro e vestiti. Però nelle scuole non esiste educazione sessuale. E quando ho parlato dell’esperienza dei miei figli in Belgio, i poliziotti erano sconvolti. Perché il Perù è un Paese patriarcale, cattolico e conservatore, e le ragazzine restano incinte a 12, 13 anni. Quando abbiamo iniziato a lavorare al film, il Belgio si occupava di cooperazione in Cile, Bolivia, Ecuador e Perù. Poi questi Paesi sono usciti dalla lista di sottosviluppo e, col governo di destra, tutto si è fermato. Come Europa - oltre al precipitato del colonialismo - abbiamo la responsabilità di aver abbandonato questa parte di mondo».

Quali pericoli avete fronteggiato per girare il film?
J.: «Ci sono zone dove è folle andare. Non c’è nulla se non il fiume e fango, condizioni miserrime di vita. Lì abbiamo girato due sequenze per strada e alla fine della giornata centinaia di persone ci hanno gridato di andarcene, hanno cercato di toglierci le camere…  Perché è un luogo dove tutto è illegale, i minatori, le ragazze, persino il sindaco».

In questo quanto ha contato l’essere in due?
L.: «Impossibile fare questo film l’una senza l’altra. Ci abbiamo messo la nostra complementarità, la nostra libertà, e ce ne siamo prese i rischi. Siamo andate fino in Amazzonia e quando eravamo sulla barca nessuno poteva più dirci nulla. Il produttore quando ha visto il film era scosso: Bénédicte, ma il fuoco! Ci sono problemi con la messa a fuoco… No, era quello che volevamo, Mary e io».