Restano le sue opere, finalmente; e non importa che il Nobel non sia arrivato, perché a vederla bene si sarebbe trattato di un riconoscimento troppo umano per uno che ha saputo staccarsi dalla media in fatto di scrittura.

Un ridicolo primato italiano che potremmo vantare è sul numero degli ammiratori. Meglio, sugli scrittori e giornalisti italiani che, in questi decenni, ne hanno ribadito il valore enfaticamente - nel modo, cioè, che meno sarebbe piaciuto a lui. Il più grande scrittore vivente. L’unico meritevole di Nobel. La cosa più buffa era la patina salottiera di queste inutili iperboli, la posa: qualcosa che con la letteratura c’entra zero. Gli ammiratori si sono spesso azzardati anche a imitare, producendo libri di cui era talmente chiara la matrice da risultare talvolta patetici. Mentre gli scrittori americani venuti dopo di lui hanno in larga parte evitato di confrontarsi direttamente (pur amandolo, o meglio: proprio amandolo), da noi gli emuli hanno perfino esagerato. Per questo, bisognerà tornare a Philip Roth senza essere iscritti al club. E sarà possibile, con tristezza, proprio perché “il più grande scrittore vivente” è uscito di scena.

Restano le sue opere, finalmente; e non importa che il Nobel non sia arrivato, perché a vederla bene si sarebbe trattato di un riconoscimento troppo umano per uno che ha saputo staccarsi dalla media degli umani in fatto di scrittura. E se è vero che per riconoscere il talento ci vuole talento, a cogliere chiaramente la dote di un Roth appena ventiseienne doveva essere uno come Saul Bellow che, nel ’59, saluta l’esordiente dicendone meraviglie: «Philip Roth è apparso sulla scena con unghie, capelli e denti formati, e già capace di esprimersi con coerenza». Poi aggiunge, come fanno i maestri veri, la stoccata: «A volte, è come se brillasse troppo». Di lì parte con una serie di obiezioni che però chiede al destinatario di ignorare.

Il torto che si fa ai grandi scrittori è di imbrigliarli in categorie buone per i titoloni. Ma una cosa che Bellow capisce, e fa capire, è che Roth sarà un grande scrittore se riuscirà a essere uno scrittore ebreo ma non solo uno scrittore ebreo, uno scrittore armato di ironia “pungente”, ma non solo uno scrittore ironico, uno dotato di spirito di osservazione sociale, ma che non si fidi troppo della sociologia. Magari senza accorgersene, pare che Roth, nei risultati più smaglianti del suo cinquantennale lavoro, abbia tenuto nell’orecchio la pulce che vi aveva infilato Bellow. E così, sarebbe sminuirlo se lo riducessimo al cantore acido della vita di un ebreo americano, fra traumi e nevrosi, nel ventesimo secolo. Sarebbe sminuirlo se ricominciassimo con la solita solfa di come ha raccontato - epicamente - il sesso, i pruriti maschili, l’ossessione erotica, il tentativo di guadagnare una tregua fra la dignità e il desiderio. Sarebbe sminuirlo, voglio dire, non calcolare l’enorme, eroica quantità di vita che ha sbrigliato raccontandola, fra un paletto e l’altro, facendo il verso a sé stesso e a chi gli faceva il verso. Prendendosi gioco lui stesso di Alex Portnoy, masturbatore compulsivo; mandando a monte i piani di Nathan Zuckerman o di David Kepesh, eteronimi insubordinati; costringendo Zuckerman a uscire di scena prima dell’autore, e costringendo infine sé stesso a chiudere nettamente i conti con la scrittura prima di chiudere quelli con la vita.

Uno dei libri considerati poco riusciti anche da ammiratori che semplicemente avevano smesso di leggerlo, si chiama “L’umiliazione”. È del Roth ultimo - quello per cui valeva lo sciocco ritornello usato per Woody Allen («Non è più quello di Io e Annie!»). Macché: l’incipit vale il libro. Parla di un attore al capolinea, uno dei maggiori della sua generazione, che non si ritrova più a suo agio sulla scena. Bene, a Roth basta una frase per dire tutto - ed è questa: «Aveva perso la sua magia». Simon, l’attore, non si dà pace. Un amico lo incoraggia, e hai la sensazione che Roth settantaseienne - a mezzo secolo esatto dall’esordio -parli a Roth. «Stai dimenticando chi sei e quello che hai raggiunto. La tua vita non finisce qui. Un’infinità di volte hai fatto, in scena, delle cose che non mi sarei mai aspettato, e questo nel corso degli anni ha emozionato migliaia di volte il pubblico, e ha emozionato sempre me. Ti allontanavi il più possibile dalla cosa ovvia che avrebbe fatto ogni altro attore. Non battevi mai la stessa strada. Tu volevi andare dappertutto. Fuori, fuori, fuori».

Mi piacerebbe poter mostrare ogni passaggio in cui questo, nella vasta opera di Philip Roth, è accaduto. Ogni volta, anzi ogni frase, in cui si è allontanato dalla cosa ovvia che avrebbe fatto qualunque altro scrittore. Ma non è possibile. «Pensa a quanto sei durato», dice ancora l’amico al vecchio attore. Pensate a quanto è durato! In questo senso, quando Roth dice che a salvarlo, più che il talento, è stata l’ostinazione, non sta civettando. Sta dicendo che la verità più trasparente dei suoi cinquant’anni di carriera somiglia a quella rivelata da un altro suo personaggio, il misterioso scrittore Lonoff: «Io prendo le frasi e le giro. Questa è la mia vita. Scrivo ogni frase e la giro. Poi la guardo e la giro di nuovo. Poi mi sdraio sul sofà e rifletto. Poi mi alzo e le cancello e ricomincio da capo».

Così Roth per una vita ha girato frasi. Ed è proprio lo speciale modo in cui “girano” che rende visibile la sua maestria. Prima di farla finita con la scrittura ha dato alle stampe un breve romanzo. Si chiama “Nemesi”, e non c’è una sola pagina di sesso. Tanto per smentire i prevenuti. Credo che per scrivere un libro così, o una sola pagina di un libro così, non bastino cento corsi di scrittura, e nessuna delle nostre illusioni. C’è di mezzo un’epidemia di polio, a Newark, durante la Seconda guerra mondiale. C’è di mezzo un ragazzo di vent’anni e una comunità di bambini che muoiono uno dopo l’altro. C’è, su tutto, lo sguardo di un narratore che non deve più sforzarsi di essere brillante, o pungente. Che non deve più dimostrare nulla. Sa dire tutto della vita in 180 pagine, e non importa nemmeno troppo che storia sia. Basta che descriva un acquario, l’acquario appartenuto a un ragazzino, Alan, che ora non c’è più. «Sulla vasca era accesa una luce al neon, e dentro si vedeva una popolazione di piccoli pesci variopinti». E un uomo che, avvolto da quel lutto, pensa che senza Alan moriranno di fame, o saranno dati via, o saranno «buttati giù per il gabinetto da qualcuno in lacrime». Se credete di sapere abbastanza di Roth, o se non l’avete mai letto, iniziate da qui.