Intellettuale caustico, rivoluzionò l’idea del costruire anche dalla sua rubrica sull’Espresso. Una mostra al MaXXI di Roma celebra l’architetto

Never box! Declamandolo come uno slogan, Bruno Zevi con tono perentorio, gesto definitivo e sguardo fisso sull’interlocutore, chiudeva le interviste. Niente scatola. Una frase semplice. Il professore la usava, citando Frank Lloyd Wright, per sintetizzare l’idea di un’architettura fatta di spazio e non sacrificata nella conclusa geometria di un cubo o di un parallelepipedo. Ma per Zevi il “never box” era anche pratica di vita. Uscire dagli schemi mentali, dalle categorie, dalle abitudini visive, dalle consuetudini, dai ruoli precostituiti. Lui di ruoli riusciva ad assumerne parecchi: architetto, urbanista, storico, docente, politico, giornalista, polemista, anchor man.

Compito arduo, ora, nelle celebrazioni per il centenario della nascita riassumerne il profilo e l’eredità in questa mostra che il MaXXI ospita fino al 16 settembre, affidata alle sapienti mani di due esperti curatori come Pippo Ciorra e Jean-Louis Cohen insieme alla Fondazione Zevi, che ha prestato materiali preziosi: riviste, libri, manifesti, video, audio, carteggi e progetti degli architetti e delle architetture che il professore promuoveva e difendeva.

“Gli architetti di Zevi. Storia e controstoria dell’architettura italiana 1944- 2000” è il titolo che ruba le parole a uno dei volumi fondamentali dello Zevi pensiero. Controstoria soprattutto, il suo territorio, quello che lui scrutava con sguardo originale e laterale, nemico di ogni gabbia e di ogni ideologia, fiero sostenitore della democrazia occidentale che gli aveva salvato la vita.

Nato a Roma da una famiglia di buona e colta borghesia ebraica, da Roma era fuggito nel 1938 a causa delle leggi razziali. Prima a Londra poi in America a studiare ad Harvard nella Graduate School of Design diretta allora da un altro rifugiato, Walter Gropius. Ma nell’immediato dopoguerra è già di ritorno in Italia pronto a spendersi per una ricostruzione non solo architettonica ma culturale che ci riscattasse dall’oscurantismo fascista.
E per far questo non bastava l’università e la carriera accademica. Zevi da sincero democratico è convinto che la cultura debba arrivare a tutti ed essere divulgata con ogni mezzo. Dai libri a basso costo, che nella sua vita produrrà in maniera incessante come autore ed editore, a mostre rivoluzionarie, fino ai mezzi di comunicazione di massa che lui saprà gestire come pochi. Con la sua bella voce scandita e baritonale, i gesti ampi e teatrali, l’immancabile papillon, l’intelligenza prensile unita a una potente capacità retorica, Zevi fu un precursore nel costruire quell’immagine di sé, necessaria a cavalcare radio e televisione per portare il dibattito sull’architettura nelle case di tutti gli italiani. Inventava dei broadcast, partecipava a talk show popolari, fondò una delle prime tv private, Teleroma56, dove con metodo (che oggi sarebbe giudicato del tutto anti televisivo) trasmetteva da casa sua lunghi confronti, dibattiti e discussioni su temi di politica e attualità culturale.

Ma fu soprattutto dalle colonne della sua rivista “Architettura - cronache e storia” e dalla storica rubrica sull’ “Espresso”, a cui collaborò dalla fondazione fino al giorno della sua scomparsa, che Zevi tracciò la linea della sua lotta politica e pratica contro «l’architettura della repressione classicista, barocca e dialettale».
Giudizi categorici lanciati contro tutto ciò che riteneva in odor di fascismo. L’Eur: «Un errore colossale e mostruoso. L’architettura fascista nella sua edizione più fiacca e balorda». Disneyland e i parchi giochi: «Percorsi obbligati, costruiti sui modelli dei campi di concentramento». Il Vittoriano: «Kitsch, accademico, devitalizzato, glacialmente arcaico, privo di gioia e di flagranza». La simmetria: «Una grave malattia psichica, sintomo di instabilità interiore. Un edificio simmetrico incarcerato in se stesso, è antisociale. Tanti edifici simmetrici formano un discorso autoritario».

Sferrò una lotta senza quartiere a ogni architettura coercitiva, ma soprattutto negli anni Ottanta al nemico assoluto, Paolo Portoghesi e il citazionismo post moderno che lui vedeva come una rinascita della monumentalità retorica, schiacciante e nostalgica del passato.

Bruno Zevi invece era sempre proiettato sul futuro. Un progressista convinto e politicamente impegnato. Contro ogni scatola ideologica o confessionale la sua strada era la terza via: Giustizia e Libertà; il Partito d’Azione che vuole rifondare nel 1994; la sua creatura IN/ARCH strumento per creare un’alleanza produttiva e illuminata fra imprese e architetti; la presidenza del partito radicale che lascia poi in polemica con la decisione di aderire al gruppo misto europeo insieme alla destra francese… Quando nel 1963 Aldo Moro vara il primo governo di centro sinistra è a casa di Bruno e Tullia Zevi che viene organizzato un incontro fra Pietro Nenni e Arthur Schlesinger consulente del governo americano, per convincere gli Stati Uniti dell’affidabilità dei socialisti.

«Non era una posizione facile né condivisa», spiega Pippo Ciorra, «nel momento in cui la storiografia universitaria faceva riferimento all’impegno sociale e comunista di Manfredo Tafuri, Zevi rappresentava l’intellettuale borghese, espressione di una poetica individualista. Gli architetti che difendeva nella sua rivista e sull’ “Espresso” non erano visti di buon occhio dalla critica ufficiale». Sebbene Zevi fosse stato il primo a individuare le capacità di un giovane Renzo Piano o a difendere forti ed eccentriche personalità come Luigi Pellegrin, le riserve accademiche sulle sue posizioni furono dure a morire. E anche su questo i curatori della mostra vogliono far nuova luce: ripresentando il lavoro di una quarantina di autori che Zevi indicò come interpreti del suo pensiero e che una visione più ideologica aveva messo ai margini della storiografia. E ritroveremo qui Carlo Scarpa, Carlo Mollino, Paolo Soleri, Piero Sartogo, Giancarlo De Carlo ma anche nella sua sconfinata libertà di pensiero autori più conclamati come Pier Luigi Nervi, Giovanni Michelucci, Adalberto Libera.

Controstoria dell’architettura, appunto, che alla fine degli anni Ottanta si ricongiunge con la storia, quando ormai tramontato l’odiato postmoderno, Zevi vede nel decostruttivismo di un Frank O. Gehry, Libeskind o Zaha Hadid il trionfo dei suoi principi: «Cinquemila anni di storia autoritaria sono liquidati…L’intero apparato delle convenzioni e delle abitudini risulta estirpato. I tavoli da disegno vanno al macero, perché quel disegno non serve più; giganteschi falò di righe a T, squadre, tecnigrafi, compassi liberano gli studi professionali. Si lavora con il computer che ignora la linea dritta, il parallelismo, l’angolo retto, l’uniformità e lo standard (...).

La nuova architettura incarna la democrazia, giustizia e libertà, il liberalsocialismo con le sue contraddizioni, la sua cacofonia, la sua affabilità al caos», scrisse nel 1995 sulla sua rivista. Parole che oggi la figlia Adachiara Zevi, presidente della Fondazione, cita nel bel testo che accompagna la mostra in cui ricorda come «Frank O.Gehry nel commemorare l’amico a Tel Aviv a pochi mesi dalla scomparsa, invitava i giovani che gremivano la sala a tenere sempre sotto il cuscino il suo testo “Saper vedere l’architettura” e a prenderlo in mano nei momenti di crisi e sconforto». E se c’è una missione che nel solco di Zevi questa mostra dovrebbe avere è quella, ci dice ancora Adachiara, «di iniettare nei giovani, ma anche nei professionisti comprensibilmente demotivati, una scarica di energia e di entusiasmo, un invito a scuotersi dal torpore e ad assumere nuovamente un’attitudine critica».