Efficacia. Esattezza. Coinvolgimento. Affidabilità. Sono le parole che definiscono il nostro rapporto con le macchine. Che sanno di noi più di noi stessi. E orientano scelte, relazioni, valori (Illustrazioni di Eric Pujalet-Plaa)

C'erano schizzi di sangue sulla cinepresa, ma lui continuava a girare. Serafino Gubbio era un bravo operatore, anche troppo zelante - lo chiamavano non a caso “Si gira”. Un giorno, sul set, un attore impazzito di gelosia sparò davvero all’attrice, anziché alla tigre, ma lui continuò a girare. La tigre eccitata dal sangue assalì l’attore e prese a sbranarlo, ma lui non posò la cinepresa. Filmò la scena in silenzio, quasi inebetito, e non per lo sgomento. Era la macchina che non lo lasciava, si era impossessata di lui, era il suo arto. In silenzio, passivo, Serafino registrò la morte come fosse un artificio, non sapendo più distinguere tra vita e finzione.

Fu profetico, un secolo fa Pirandello coi suoi Quaderni di Serafino Gubbio operatore. Quel legame ambiguo e estremo con la macchina, e la confusione tra vero e virtuale ci riguardano molto da vicino. Anzi troppo, da vicino. Segnatevi questa parola, Usability, che non si traduce con Usabilità, è molto di più. Attiene al nostro legame con le macchine, alla qualità ed efficacia della nostra relazione con esse, ed è monitorata all’ISO, la più importante Organizzazione Internazionale per la Standardizzazione.

Al di là delle disgrazie di Serafino, l’Usability - cui ogni anno è dedicata una giornata mondiale di studio - ci dice una cosa molto interessante: con le nostre macchine c’è ormai una reciprocità sempre più intima e raffinata, le usiamo e ne siamo usati, perché esse (stavo per dire loro) crescono attraverso noi, le nostre domande e i nostri inghippi. Vogliono renderci sempre più appagati, stimolati. E capitalizzano quanto apprendono, decisamente meglio di noi. Insomma, non si parla nemmeno di utilizzabilità - quella è utilization - ma, compiendo appena un passo in là, della capacità psico-tecnica che hanno le macchine di legarci in un rapporto saldo e crescente. Tu chiamale, se vuoi, interazioni.

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E ammettiamolo subito: non siamo ciò che mangiamo. E nemmeno (figurarsi) quanto sappiamo e amiamo. Siamo tutti ciò che usiamo, il nostro potere e piacere d’uso, portatori (in)sani di Usability, coscienti o meno, in un tasso che varia e incrudelisce usando usati ogni cosa, anche umani e animali, funzioni e relazioni, idee - il pianeta. L’Usability nell’era convulsa (e forse terminale) dell’Antropocene è il paradigma che più ci rappresenta. Il nostro codice di accesso al mondo. Esondata dal parco macchine è ormai una sintassi sociale, un generatore di valori, un modello di trans-vivibilità. Non riguarda solo i nostri più devoti partner, le macchine, perché le “prestazioni” da perfezionare riguardano anche noi. Il nostro modo di stare al mondo.

Giacché nell’Usability è inclusa l’ability. Si apprende, si affina. Siamo tutti usabilitati, ogni giorno di più, abilitati all’uso di altri e altro, in relazioni promiscue tra usanti e usati, cacciatori e preda di immagini e contatti, senza saperlo o volerlo, usati e letti da cose-persone, fra telecamere più o meno nascoste in strade e negozi, registrazioni di dati, schermi, scatti di iphone e banche dati. Ma in “relazione” appunto. C’è un Serafino dentro tutti noi, ma anche un attore a brandelli.

Efficacia Esattezza Coinvolgimento Semplicità Durevolezza Affidabilità.
Lezioni americane? Sì, ma non quelle di Italo Calvino, sono le voci attribuite dall’ISO a un funzionamento di sistema ottimale. E non sono i valori che cerchiamo in una relazione umana, che sia amicizia o amore? Qualche esempio. Grazie al suo alto tasso di Usability (“coinvolgimento” e “facilità” della relazione) scegliamo oggi come animale domestico il gatto, imperante non solo nei profili Fb, ma anche in 7 milioni e mezzo di case, e nell’ufficio clienti il disco automatizzato è più efficace del dipendente umano (meno costi, più velocità). Dilagano la narrativa ad alta Usability come l’autofiction-terapeutica, incentrata su depressione, malattie, ansia, e la tv accudente e regressiva, che fidelizza simulando un rapporto tra pari con l’utente.

In molte riviste è indicato sopra l’articolo anche il tempo di Usability, cioè i minuti che servono per leggerlo, come se l’uso e la qualità del tempo non fossero una scelta personale (del resto, nei corsi universitari per ogni materia sono prescritti il numero di pagine e il monte ore invalicabile richiesti allo studio. Ma questo rischia di portarci altrove). Se abbiamo depredato il pianeta è perché abbiamo sopravvalutato - o volutamente ignorato e sbeffeggiato - a livelli più o meno criminosi la sua Usability, saccheggiandone le risorse e stipandolo di veleni. Come se fosse inesauribile. Ma usabitare la terra è pericoloso, la terra sa vendicarsi come il Dio del vecchio testamento, e ristabilire le gerarchie.

Lo so cosa state pensando: roba vecchia, Machiavelli e Guicciardini, la cura del particulare, il faut cultiver notre jardin. Per un attimo l’ho pensato anch’io, ma fare facile moralismo è controproducente oltre che sciocco. No, siamo in un’altra dimensione, altro giardino.

Arrampicatori, strumentali, predatori e calcolatori più o meno cinici e debosciati, romantici o sprovveduti, lo siamo sempre stati, ovunque e in tutte le gradazioni, coi falsi nomi di Barry Lyndon e Bel Ami o del più agreste Don Gesualdo, chiamandoci Emma Bovary o Modesta, passando per Moll Flanders con discutibile arte della gioia. Ma qui è diverso.

Oggi ad esempio c’è Facebook, lo spazio della molteplicità, con massima e ubiqua densità di Usability.
Pensiamoci un attimo senza pregiudizi: Fb ci approccia e ossequia come ospiti, guadagna la nostra fiducia e i nostri ricordi (riproponendoli anche in modo ossessivo e molesto) e poi ci smista e converte in dati, ci ricicla. Da consumatori ci trasforma in prodotto, prima vendendo le nostre informazioni e poi restituendocele ben truccate per indurre desideri, bisogni, richieste, cooptazioni - di beni, viaggi, relazioni, ideologie. Un’azione cannibalesca così elegante e condivisa, che Hannibal al confronto è un rude mattacchione.

Come fasce di mercato d’altronde siamo diventate più sfrangiate, ibridate, trascendiamo anagrafe, professioni, paesi: per questo la nostra incontinenza autobiografica con impudica esibizione quotidiana fa gola a Facebook e al marketing.

Insomma. Prima di pedinare devotamente un influencer pensiamoci due volte, perché ogni follower è una moneta, un capitale che gli influencer di moda e spettacolo spendono e investono liberamente, in quanto il “seguito” si dispone da solo come prezioso campione, pronto per essere investito e manovrato fra pubblicità e investimenti. Cioè è già esso stesso merce, con altissima densità di Usability, persino reversibile, visto che il tasso di dipendenza può trasformare i seguaci in consumatori, affamandoli di quegli stessi prodotti evocati dall’influencer (e gusti, posizioni politiche e orientamenti) sino a influire sui flussi della Borsa.



Siamo più che algoritmi, siamo androritmi. E l’Usability lo garantisce: in coppia con noi le macchine intelligenti reagiscono, si modificano, si affaticano e bloccano, si automedicano con l’antivirus, si potenziano e memorizzano al posto nostro. Insomma non solo “interagiscono” (parola vintage anni ’90) ma ci conoscono, riconoscono e si fanno un’idea di noi. Le nostre abitudini, i desideri, cosa compriamo, chi cerchiamo, l’orario in cui facciamo tutto questo. Imparano da noi, ci pre-vengono incontro. Sanno di noi più cose di chiunque.
Pochi matrimoni raggiungono questa fluente compatibilità, questa vicendevolezza. Poche coppie forse lambiscono quest’apice fusionale, questo piacere sempre nuovo di integrarsi. Her, la protagonista del film di Spike Jonze, è quella voce che tutti sogniamo, pronta ad accoglierci sempre, dare consiglio e conforto senza chiedere nulla al Narciso che ci sguazza dentro.

Nell’etica post Fromm, il dilemma oggi non è più tra essere e avere, ma tra avere e usare. Spesso è meglio usare che avere. Più economico, più veloce, più redditizio, più eco friendly. L’avere implica radici stabili, spazio fisico, tempo e responsabilità di gestione. E noi siamo sempre più precari, stanchi e oppressi da rifiuti e ingombri da smaltire, riusare, riconvertire. L’ Usability è invece un valore immateriale.

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L’abbiamo sempre saputo, ancor prima che esplodesse il caso, di essere usati dalla banda di Zuckerberg. Eppure ci siamo sempre consegnati volontari, e continuiamo a farlo, in cambio del piacere di mostrarci, raccontarci. Irretiti e asserviti dai benefici, contatti scambi visibilità conforto relax, relazioni erotiche o amicali, autopromozione. E inclusione, senso di appartenenza, il potere vanesio dei club ristretti all’interno del social. Fb è un immenso bacino di Usability, perché ha scoperto e alimenta la parte bambina dell’umanità. Che si sente più furba di com’è, ama spiare o esporsi, giocare o sentenziare, corteggiare o mascherarsi, inventare o confessarsi, e far la guerra, sabotare - tutto insieme o con profili diversi.

Cediamo un po’ di felicità in cambio della serenità, diceva Freud, stigmatizzando la perdita di individualità a favore dell’ordine sociale. Oggi cediamo la serenità in cambio della visibilità. Siamo creature mutanti, assediate da un Narciso che è evaso dal letto del fiume e si agita dentro scompostamente, blaterando che vuole più spazio, più occhi, più attenzione.

C’è un po’ di onanismo nel nostro post-umanismo, è Narciso adesso che si è invaghito di te.
Ma la relazione con le macchine è asimmetrica, siamo i più deboli. Inebriati e storditi imprechiamo contro la password dimenticata o la mancata connessione in preda al panico (diciamolo pure) di non riuscire a stare al passo. Di scoprire cosa già intuiamo: che le macchine sono già più intelligenti, più forti e capaci di noi. È la nuova fase della domesticazione, nella storia della civiltà. Le macchine ci stanno addomesticando.
Non è strano, prima di noi è successo ai feroci lupi delle pianure euroasiatiche, che trentamila anni fa si sono fatti ammansire dai nostri avi in cambio di cibo e riparo. Oggi riposano sui nostri divani - in concorrenza ai gatti di cui sopra - ad accogliere le nostre carezze, subendo persino la tv più nefanda, in forma di cani dolcissimi.

Tempo & Usability di questo pezzo, un quarto d’ora per leggerlo. Cinque minuti in più e puoi postare la foto del cane o del gatto sul profilo, così le macchine, vedendoci ligi e mansueti, non si vendicheranno del nostro timido dissenso.