Un cranio con le ossa segate e i denti intagliati. Vicino al Colosseo si scopre un trofeo fatto di resti umani, che svela le abitudini più inquientanti di condottieri e imperatori

"Incredibile! Mai vista una cosa del genere!" Sono stati questi i primi commenti dell’archeologa Clementina Panella di fronte a una scoperta unica nella storia di Roma: un cranio scarnificato sbucato dal terreno durante la campagna di scavo in corso alle pendici del Palatino.

Il teschio, trovato accanto a numerose teste di buoi e a un neonato sepolto in un vaso di terracotta ma senza altri resti dello scheletro, ha immediatamente posto diversi interrogativi.

Innanzi tutto: a chi apparteneva? E come mai si trova proprio qui, in quella che fin dai tempi della fondazione di Roma era una zona sacra? Siamo infatti nel luogo dove Panella ha rintracciato qualche anno fa le “Curiae veteres”, il santuario civico che la tradizione attribuisce a Romolo, dove due volte all’anno i cittadini si riunivano per consumare i pasti in comune.

Col tempo il complesso ha subíto rifacimenti ma è sempre rimasto un luogo venerato, dove venivano seppelliti in fosse rituali resti architettonici delle strutture precedenti ed ex-voto: sono stati recuperati frammenti di terrecotte ornamentali dipinte con tinte accese, risalenti fino all’età dei re. Il cranio si trova però in un livello successivo, datato al quinto secolo avanti Cristo, quando il luogo di culto era ancora in piena attività.

Dopo la pulitura e i primi esami - che ha visto la collaborazione di antropologi della Soprintendenza speciale di Roma e di fisici dell’università La Sapienza - il reperto è stato attribuito a un uomo di 30-35 anni, cieco da un occhio. Il teschio presenta strane particolarità: la mandibola, gli incisivi e i canini mancano, mentre due molari sono stati intagliati in modo regolare, e le ossa dietro le orecchie sono state segate di netto. «Probabilmente queste manipolazioni, avvenute quasi tutte dopo la morte, erano state praticate per fissare il cranio su un supporto», spiega Panella. «Perché? La nostra ipotesi è che sia stato appeso come trofeo».

Esporre teste di nemici, soprattutto se re e comandanti, non era un’usanza rara nel mondo antico centro-europeo, ma le fonti letterarie attribuiscono la diffusione di tale costume alle popolazioni celtiche, in particolare ai Galli: il geografo greco Strabone, che scriveva all’epoca di Augusto, riferisce - per averlo letto - che essi inchiodavano all’architrave delle proprie case le teste mozzate dei nemici uccisi in combattimento; ancora prima Diodoro Siculo, autore in greco di una “Biblioteca storica”, riferisce che i Galli appendevano nelle loro case anche le armi intrise di sangue strappate agli avversari e che le teste dei nemici più famosi erano imbalsamate con olio di cedro, messe in delle ceste e mostrate agli stranieri.

Lo storico Livio conferma: nelle guerre contro i romani, per terrorizzarli, i guerrieri gallici appendevano ai propri cavalli, o infilzavano sulle punte delle lance, teste di legionari, mentre intonavano minacciosi canti di guerra. Del resto, sono tanti i crani venuti alla luce in Francia - e anche in Spagna e in Germania - trapassati da chiodi o con la calotta perforata.

Dal mondo romano arrivano invece notizie scarne sulle decapitazioni del nemico come segno di una vittoria importante: Romolo che mozzò la testa ad Acrone, re dei Ceninensi, oppure il console Marco Claudio Marcello che nel 222 avanti Cristo decapitò Virdumaro, duce dei Galli Insubri, e pochi altri esempi. Ma, a fronte delle testimonianze sulla durata di questa usanza nelle terre d’Oltralpe, lo storico francese Jean-Louis Voisin rigetta le accuse rivolte ai suoi lontani antenati.

Sostiene infatti che, col passar del tempo, i romani non considerarono più “barbaro” o crudele questo costume: li definisce anzi veri e propri «cacciatori di teste», con una pratica istituzionalizzata che dall’età mitica arriva alla fine del quarto secolo dopo Cristo. Con dettagli ricavati da documenti letterari e archeologici, Voisin stila così un elenco di 76 persone illustri, uomini e donne, alle quali - per rivalità, motivi politici o bellici - fu mozzata la testa.

Alcuni episodi sono noti: Marco Antonio che ostentava sul suo scrittoio il capo tagliato a Cicerone, nella cui lingua la moglie di Antonio, Fulvia, pare abbia infilato uno spillone. Oppure la testa dell’imperatore Massenzio, sconfitto da Costantino a Ponte Milvio nel 312 dopo Cristo che fu portata in giro dai soldati vittoriosi e poi spedita in Africa, dove Massenzio aveva i suoi principali sostenitori.

Le teste avevano cominciato a viaggiare da tempo, conservate nel miele, nella cera o trattenute da bende, a cominciare da quella di Pompeo fatta arrivare a Giulio Cesare e da quella di Bruto, uno dei cesaricidi, diretta a Roma ma finita nel mare in tempesta.

Voisin sottolinea che si moltiplicarono i sicari prezzolati - specialmente nell’ultimo e turbolento periodo repubblicano - e il mercato che ruotava intorno all’acquisto di teschi di personaggi famosi. A proposito, ricorda il macabro episodio della fine del tribuno Caio Gracco: quando, dopo la morte, il suo capo fu messo in vendita a peso d’oro, per renderlo più pesante e aumentarne quindi il prezzo, il cervello fu sostituito dal piombo. Sono situazioni poco conosciute di Roma antica, che comunque non sminuiscono il valore della nostra più celebrata civiltà, alla base - amministrativa, giuridica, urbanistica - di tutto il mondo occidentale.

Il reperto del Palatino non ha però indicazioni sull’appartenenza al corpo di un sovrano o di un condottiero di spicco; in questo caso ci sarebbe stato, nelle vicinanze, qualche segno di riconoscimento. Oltretutto, non era nemmeno sistemato in una fossa, dentro un contenitore o sotto un cumulo di pietre, a differenza dei teschi bovini trovati lì accanto (i “bucrani”, così frequentemente rappresentati nei monumenti romani): questi, dopo essere stati esposti su palizzate, erano stati ben interrati in quanto resti di un sacrificio e del successivo banchetto.

Da molti scavi archeologici sappiamo che se un cranio veniva prelevato dalla sepoltura, spesso era per diventare oggetto di culto da parte di gruppi sociali che si consideravano discendenti del defunto, e ritenevano che in questo modo l’antenato li avrebbe protetti. Anche pezzi di ossa asportati dallo scheletro venivano sepolti a parte e usati come ornamento personale o amuleti: si riteneva che avessero poteri magici quando riguardavano persone “speciali” o per virtù profetiche, o per un coraggio straordinario, o anche per anomalie fisiche considerate prodigiose.

Gli scrittori che narrano le origini e lo sviluppo di Roma non fanno però alcun accenno a crani-trofei umani sul Palatino; menzionano solo i resti bovini, certamente in gran numero. Erano così conosciuti da essere utilizzati come riferimento topografico: la casa natale di Augusto per esempio si trovava “ad capita bubula” (“presso le teste dei buoi”).

Per acquisire ulteriori elementi, un frammento del cranio è stato inviato a Lecce, dove Lucio Calcagnile, direttore del Centro Diagnostico nell’università del Salento, ha effettuato le analisi per la datazione al 14C. Il risultato, appena arrivato, conferma la possibile datazione proposta dagli archeologi, ma all’interno di un arco cronologico ampio: dall’ottavo al quinto secolo avanti Cristo. Due, quindi le possibilità, conclude Panella: «La prima, rimanda all’epoca più lontana e a una casualità: venuto alla luce durante lavori edilizi, il cranio era stato malamente riseppellito; la seconda, lo colloca invece nella vita del santuario coevo, oggetto di un’esposizione pubblica. Potrebbe essere una testa-trofeo di un nemico ma non si può escludere che fosse invece un personaggio legato alla comunità che si riuniva in questo luogo. In ogni caso si tratta di un unicum, che stimola ulteriori indagini».

Invece il recipiente (“olla”) contenente il corpicino del neonato, quasi certamente è finito lì nel corso della nuova sistemazione del santuario, e proveniva da un edificio abbattuto. Non è insolita la sepoltura di un bambino all’interno della città “dei vivi”: gli spazi della Roma antica sono stati utilizzati a lungo per deposizioni analoghe, ne sono state trovate anche sotto il tempio di Antonino e Faustina nel Foro.

Sono quindici anni che Clementina Panella, già professore ordinario di Metodologie e Tecniche della ricerca archeologica, con gli studenti della Sapienza scava questo versante del colle imperiale, di fronte al Colosseo, in concessione da parte del Ministero dei Beni culturali. I risultati sono stati a dir poco sorprendenti e raccontano una storia insediativa che precede la fondazione dell’Urbe e arriva ai nostri giorni. Sopra e sotto i terrazzamenti voluti da Nerone per la sua Domus Aurea, che hanno coperto l’intera area, sono state rinvenute tracce dell’insediamento delle prime capanne, le antiche Curie, la casa natale di Augusto.

Da questi scavi sono riemerse le uniche insegne imperiali giunte fino a noi - scettri, porta insegne, globi in materiali rari - appartenute a Massenzio, e poi un ambiente lussuoso per riunioni del tardo impero, ritratti di sovrani, e poi tracciati stradali, pavimenti di marmo, materiali di culto e di uso quotidiano che dai primi re arrivano al Medioevo.

Il ritrovamento di “Ignoto 1 del Palatino”, con i suoi misteri, si aggiunge al palmares di questa archeologa. «E non abbiamo finito», aggiunge Panella. «Oltre a lavorare sull’immensa mole dei dati raccolti, mi sto battendo sia per creare un Museo dedicato a tutte le scoperte, sia per valorizzare l’area esplorata attraverso i principali momenti delle sue vicende urbanistiche. Siamo nel cuore del centro di Roma: la città contemporanea deve poter conoscere e apprezzare i segni più rilevanti del suo passato».