Da una pièce di Wilson, “Barriere” non supera la regia teatrale. È raro imbattersi in un film che si metta così umilmente e piattamente al servizio del testo di partenza
Oltre al record di nomination per “La La Land”, gli Oscar 2017 si ricorderanno anche per le candidature a film sui neri americani, che stanno arrivando da noi tutti in queste settimane. Però, tranne in parte “Moonlight”, il film vincitore, che ha cose più nuove e complicate da dire e si barcamena astutamente tra il gusto arty e il realismo sociale vecchio stampo, gli altri titoli sono tutti benintenzionati e vecchiotti - e forse non a caso ambientati molti decenni fa. Come se il cinema americano fosse ripiombato a decenni prima di Spike Lee, dalle parti di “Indovina chi viene a cena?”
“Il diritto di contare”, che ha ottenuto tre nomination, parla di un gruppo di matematiche afroamericane della Nasa, e “Loving” (in uscita il 16 marzo) è la storia di un contrastato matrimonio interrazziale negli anni ’50. “Fences” potrebbe ricordare certi teleplay degli anni ’50, scritti magari da grandi drammaturghi, ma è anche un “Morte di un commesso viaggiatore” di Arthur Miller in versione più nera e proletaria. Si tratta dell’adattamento della pièce di August Wilson, vincitrice del premio Pulitzer e parte di una serie di dieci lavori ambientati nella comunità nera di Pittsburgh.
Un successo teatrale che viene riproposto con gli stessi protagonisti che lo avevano ripreso con successo nel 2010, e diretto dal divo Denzel Washington. Storia semplice e già vista: nel secondo dopoguerra Troy, netturbino e capofamiglia autoritario, che ha conosciuto la povertà e il carcere, è riuscito a costruirsi una famiglia a fianco di una donna forte e affettuosa. Per far ciò ha rinunciato ai propri sogni di sportivo.
Ma i conflitti con i figli, e una relazione extraconiugale, fanno crollare il suo mondo.
È raro imbattersi in un film che si metta così umilmente e piattamente al servizio del testo di partenza, ricalcando la regia teatrale. I monologhi, i tempi delle entrate e delle uscite, le posture: tutto sa di teatro, perfino l’ambientazione è quasi esclusivamente quella del backyard di Troy. Però, diversamente da certi luminosi esempi di “teatro filmato”, vuole far finta di essere cinema, e il risultato è un ibrido non molto appassionante.