A cent’anni dalla caduta del Palazzo d’Inverno l'ideologia della rivoluzione russa subisce profonde mutazioni. Scopre la democrazia, conquista studiosi. Ma al convegno per l’anniversario gli oratori sono sempre gli stessi

L?o spettro che da tanto tempo si aggira per l’Europa e che esattamente un secolo fa si era fermato nella lontana Russia per rimanerci settant’anni, snaturando se stesso e le sue istanze di emancipazione e libertà, non ha ancora trovato pace. Il suo nome, Comunismo, che suscitò tante speranze e impose tante delusioni, è oggi diventato quasi un insulto, ridotto a una variante del totalitarismo e pronunciato con il disprezzo che si dedica agli sconfitti. Eppure lo spettro non si dà per vinto e in questo inizio 2017, dominato da tentazioni autarchiche e autoritarie, si affaccia di nuovo senza timidezze nelle commemorazioni di quell’Ottobre rosso di cent’anni fa che sconvolse davvero il mondo.

È, ovviamente, un comunismo diverso da quello duro e intransigente che mirava alla dittatura del proletariato. Oggi rispetta la democrazia, anzi corre in suo soccorso, si mischia con il femminismo e con le battaglie delle minoranze, esalta il primato delle differenze, trova il suo spazio in un mondo del lavoro completamente nuovo, parla di desiderio, di estetica e di «sviluppo libero delle individualità». Quasi a voler richiamare, con l’esperienza dei tempi mutati e degli smacchi subiti, quella stagione breve e fulminante seguita alla rivoluzione di ottobre, che suscitò l’entusiasmo delle migliori menti creative dell’epoca. Ha dei portavoce di prestigio internazionale come i francesi Etienne Balibar e Jacques Rancière o come lo sloveno Slavoj Žižek, ma lo zoccolo duro della riflessione teorica e della proposta politica è ormai da tempo tutto italiano.

Sì, italiano, anche se può sembrare strano a chi è abituato a declinare il comunismo negli infiniti settarismi dei partitini di sinistra che ora si scindono e ora si ricompongono. O a chi l’ha visto spegnersi nelle dichiarazioni di quegli esponenti del vecchio Pci che assicurano di non essere mai stati veramente comunisti. Il primato italiano è sancito persino da una definizione, "Italian Theory", che va per la maggiore nelle più importanti università americane, le stesse dove per decenni aveva regnato la "French Theory", che aveva reso gigantesche le icone di Michel Foucault, Jean Braudillard e Jacques Derrida.

Sarà un po’ per moda, sarà un po’ per i vezzi radicali di Yale e di Harvard, ma ormai sono gli italiani a dominare la scena, con libri e convegni che valorizzano soprattutto l’elaborazione teorica di radice operaista, quella che a partire dagli anni Novanta ha discusso di intellettualità di massa, di lavoro immateriale, dei nuovi modi di produrre, di globalizzazione, di moltitudini, di biopolitica.

Tutti argomenti «per afferrare il proprio tempo con il pensiero» secondo il compito che Hegel attribuiva alla filosofia, è stato detto in uno di quei convegni.

Un successo crescente a cui ha dato slancio la trilogia di Toni Negri ("Impero", "Moltitudine" e "Comune"), pubblicata in inglese tra il 2000 e il 2010 con l’allievo statunitense Michel Hardt che ha contribuito non poco a sciogliere un linguaggio specialistico in una narrazione più chiara.

Gli altri nomi sono quelli di Paolo Virno, in realtà il primo a rompere il monopolio americano dei post-strutturalisti con "Radical Thought in Italy" scritto con Hardt già nel 1996; di Maurizio Lazzarato, il cui saggio, "Il governo dell’uomo indebitato" (Derive e approdi, 2013) ha fatto molto discutere anche in Italia; di Christian Marazzi, di Sandro Mezzadra, di alcuni altri e anche di Roberto Esposito, nome di spessore della filosofia italiana, che operaista non è, ma è l’ideatore del concetto di "Italian Theory" che estende indietro nei secoli, staccandola dalla tradizione europea per restituirla alla sua originale irregolarità.

Il comunismo è comunque per tutti i post-operaisti, presenti o no nel pantheon dei radicali americani, non un residuo del secolo breve da dimenticare, ma uno strumento vivo per cercare di cogliere un presente sempre più mobile.

Comunismo, dice oggi Negri «è appropriarsi della natura e produrre vita», e aggiunge: «Non sono comunisti quelli che invocano la violenza e concepiscono la lotta di classe come guerra, lo sono quelli che trasformano la cooperazione produttiva in contropotere politico».

Il comunismo, dice oggi Franco Piperno «è un’attitudine umana che si ritrova ben prima di Marx. Sa conservare le differenze mentre l’uguaglianza è un prodotto della rivoluzione borghese, per cui se tu hai la stessa somma di denaro sei uguale a un altro perché puoi comprare le stesse merci».

«Con questo allontanarsi della sinistra dal comunismo, e viceversa, la sinistra è diventata strumento ipocrita di un potere sempre più torvo», dice invece Franco Berardi, detto Bifo fin dagli anni Settanta, che da tempo insegue mete più creative e personali.

Li guarda, ormai più perplesso che interessato, il grande vecchio dell’operaismo italiano, quel Mario Tronti che alla fine degli anni Sessanta accese gli animi e spronò gli spiriti con un saggio, "Operai e capitale", carico di concetti forti e di prosa sentimentale. E che oggi, dagli scranni del Senato, vota con rassegnata disciplina tutte le proposte del Pd renziano.

Ma anche lui, come tutti gli altri, non ha mancato di essere presente alla "Conferenza sul comunismo", il grande meeting che si è tenuto a Roma nelle settimane scorse, che ha attirato migliaia di giovani attivisti da tutta Europa, dalle Americhe e persino dall’Australia per ascoltare decine di studiosi e teorici. A loro Tronti ha presentato la sua dolente riflessione sulla sconfitta dell’idea comunista, non più capace, a suo parere, di interpretare il presente, perché declinata in modo plurale e non organizzato. «Il comunismo è Lenin. Punto», ha detto pacatamente. Ma forse non si è accorto che da queste parti il comunismo è ormai un concetto quasi pop, dove alla pari con i problemi del lavoro frantumato, del capitale finanziario e dell’eventuale progetto politico vivono molte altre cose, legate ai gusti e alle inclinazioni di ognuno. Non ha caso il termine più inflazionato è stato "soggettivazione" .

Lo hanno capito benissimo invece quanti sono passati dalla sala dei dibattiti alla Galleria Nazionale d’Arte moderna che, sotto il titolo "Sensibile comune", ha ospitato workshop, opere, film, dipinti, performance, discussioni e persino esperienze sensoriali, come quella del vino naturale.

Qui anche Pellizza da Volpedo non è più lo stesso, e al posto del "Quarto Stato" con i lavoratori in marcia per i propri diritti, c’è il suo "Prato fiorito", con bambini che giocano in lietezza tra le piante. Qui Franco Piperno si è presentato con la sua "soggettività" di fisico per una lezione di astronomia sulla volta celeste, rivelando, tra l’altro, che a causa dei movimenti terrestri anche il cielo non è più quello di una volta e siamo tutti nati sotto il segno zodiacale precedente a quello dato certo per tradizione.

L’accento teorico sul comunismo "sensibile", che ha cominciato ad affacciarsi negli anni Novanta, è imposto peraltro dal fatto che il lavoro posfordista, mobile e non più legato alla ripetitività, porta con sé gusti estetici, tonalità emotive, esperienza di vita. «È impossibile, per esempio, lavorare in call center se non conosci almeno un po’ le modalità retoriche», spiega Virno.

Insomma questo inizio di centenario ci mostra una presenza rinnovata o, come dicono i più convinti, una necessità obbligata di comunismo. Se ne parlerà a lungo nel corso di un anno di commemorazioni. Ha già cominciato il settimanale tedesco "Zeit" che dedica la sua ultima copertina a Marx, anche se convinto soltanto in parte che il filosofo di Treviri avesse davvero ragione. Ma di fronte all’evidenza di una classe operaia tedesca precarizzata e atomizzata che ormai vota tutta a destra, le resistenze si piegano alla necessità e il giornale propone di tornare a studiare Marx e ad apprezzarlo come analista ed economista.

E questo, dicevamo, è solo l’inizio.