«Più della felicità a tutti i costi conta riconoscere la fonte della propria gioia». Colloquio con l'autrice di 'Parla, mia paura', che qui ci parla di depressione e disagio psichico. E di come gli altri, e le parole, possano essere la cura che ci aiuta a vivere

Sono passati vent’anni da “Dei bambini non si sa niente”. In quell’esordio c’erano i campi della bassa Padana fuori Bologna in cui Simona Vinci è cresciuta, quel nulla brumoso e metafisico che ci affascina nelle foto di Luigi Ghirri, ma che per chi ci abita può essere una coperta di piombo. C’era un gruppo di bambini, l’innocenza che si guasta in corruzione, e domande sospese capaci di mettere a disagio: quando iniziamo a essere cattivi? A farci del male? A farlo agli altri? Molti libri dopo, Vinci continua a porre quelle domande. E se ci sono scrittori che interrogando le stesse questioni diventano banali, altri acquistano profondità proprio perché non si danno tregua, a costo di ossessionarci e ossessionarsi. In “Parla, mia paura” (Einaudi Stile Libero) l’autrice racconta di una depressione iniziata quando aveva poco più di trent’anni, della paura di vivere e del rifiuto del cibo, della terapia, della chirurgia plastica che l’ha aiutata a ritrovarsi, di un figlio che l’ha cambiata. Libro di un’onestà rara, è una lezione sul dolore che ci procuriamo da soli, che ci accomuna e di cui non vogliamo parlare. Ma che possiamo lenire con la pazienza, passeggiando in giardino, scegliendo chi ci fa bene. Una cura che non costa nulla.

Cosa le ha insegnato il dolore?
«Non sono sicura che attribuire al dolore una funzione conoscitiva sia appropriato. Il dolore è prima di tutto, ontologicamente, spiacevole, sgradevole, talvolta intollerabile e oltraggioso, sia che si tratti di dolore psichico che di dolore fisico. Semplicemente, temo che sia inestirpabile dalla vita e come tale è necessario farci i conti, prima o dopo. Avere in dote una certa capacità di resilienza è regalo del caso, delle circostanze dell’infanzia, ma anche, forse, qualcosa che si può conquistare durante il vivere. La cosa che mi ha tranquillizzata, nel tempo, è che l’intensità del dolore cambia e dunque ci sono buone probabilità che in certi momenti diminuisca. Fa bene pensarlo, no?»

Scrive: «Avevo trentatré anni e non sapevo chi ero». Che relazione c’è tra la sofferenza autoinflitta e identità? I gesti estremi, l’anoressia servono a trovare un senso?
«Non sapere chi si è fino a un certo punto della vita è bellissimo, perché permette di sperimentare, di scoprire, di mettersi alla prova in ruoli diversi e in tante vite possibili, ma a un certo punto è necessario, credo, avere una certa conoscenza del proprio sé. Sapere di che pasta si è fatti, quali siano le fragilità e i punti di forza, i veri talenti e invece le velleità che non si tradurranno mai in qualcosa di compiuto. Ho sempre vissuto con l’idea che non scegliere niente per uno scrittore fosse la dote ideale: se non sei niente di definito puoi calarti in qualunque psicologia, in qualunque personaggio e in qualunque storia. Però per vivere con una dose sufficiente di stabilità emotiva qualche risposta tocca darsela. La paura, quella generalizzata degli attacchi di ansia e panico, è un sintomo che parla a ognuno di qualcosa di diverso e ognuno deve fare il personale viaggio che porta a scoprire di cosa. Spesso è una questione d’amore: quell’amore che a volte siamo noi stessi i primi a negarci. Per quanto riguarda l’anoressia credo sia quasi sempre il tentativo di un controllo impossibile. Nel mio caso è stato fortunatamente un periodo breve, non penso di avere la struttura psicologica dell’anoressica».

Descrive la depressione come una Ragna, “mostruoso gioiello” capace di fagocitarti. Quanto conta scrivere per venirne fuori?
«È da sempre il mio modo di elaborare le esperienze e di interpretare il mondo, attraverso delle parole che creano delle immagini mentali e attraverso delle narrazioni».

La parola crea e può curare. È la visione ebraica della creazione che però, laicamente, diviene un atto di fiducia che ci riconnette agli altri. Il disagio psichico deriva dall’impoverimento delle parole?
«Siamo pieni di parole. Le parole ci investono a fiotto continuo dagli schermi accesi: parole scritte, voci dalle radio e dalle tv, ma spesso sono superficiali, senza peso e senza cura, a volte terribilmente violente e lesive. Un chiacchiericcio costante che non va al fondo, che non scalfisce se non per ferire, che non consola e non ci “parla” davvero. Ecco, comunicare e dire non sono esattamente la stessa cosa».

L’hanno accostata a Joan Didion. Il paragone le piace?
«Didion mi piace molto, ho letto avidamente il suo “L’anno del pensiero magico” e sicuramente ci sono delle affinità, ringrazio chi ha fatto questo accostamento, anche se in effetti io sono una narratrice di storie altre, mi piace inventare, lavorare sui simboli e stavolta ho dovuto fare uno sforzo per tentare di raccontare di me, di una piccola esperienza umana ma ad ogni capitolo cercando sempre il fuori, l’altro. Il tentativo era proprio questo, partire da “io” e arrivare al “tu”, al noi. Guardare dentro per tornare a guardare fuori. Spero di esserci in parte riuscita».

Pesa l’imposizione sociale della felicità?
«La felicità è un lampo, la serenità è un giorno, il tempo della vita è fatto di luce e ombra, è banale, ma è così. Non si può pretendere di essere felici in ogni istante, anche se una fonte di gioia dentro ogni individuo secondo me esiste sempre: è che non è facile farla sgorgare perché troppo spesso siamo condizionati dall’idea degli altri riguardo la nostra felicità. Poniamo tot cose che tutti considerano bene o male portatrici di felicità: avere una famiglia, una bella casa, dei figli sani e belli, essere belli e ricchi, e se avessi questo o se avessi l’altro. E se io invece fossi felice semplicemente passeggiando per strada e dando calci a un barattolo? Se fossi felice non possedendo nessuna di quelle cose alle quali tutti sembrano aspirare? Conoscere la propria fonte di gioia interiore è un viaggio lungo, credo si venga al mondo sapendolo, poi si disimpara e a un certo punto bisogna tornare indietro e riscoprire cos’era che da bambini ci faceva essere felici di un niente come osservare una lama di luce contro un muro, tra le foglie di un giardino, sulla pagina di un libro. E poi, chi l’ha detto che bisogna essere felici? Si può avere una vita interessante anche non essendolo continuamente, il mio scopo non è la felicità assoluta, ma saper riconoscere la fonte della gioia dentro di me».

La nascita di un bambino è la svolta del libro. Se «avere un figlio è avere paura», è vero però che la maternità lega alla vita.
«Sì. Ma è anche un grande peso essere al mondo, resistere anche quando non vorresti, perché devi prenderti cura di qualcuno che ha bisogno della tua presenza. Mi viene sempre in mente quella frase che Marguerite Yourcenar mette in bocca a Leda facendole dire che da quando ha preso con sé un cigno non è più libera di suicidarsi: «Un figlio è un ostaggio, la vita ci ha catturati». E forse in effetti è giusto così, va bene così. Anche accettare di essere catturati a volte è cosa utile».

L’equilibrio tra paura e coraggio è «uno dei lavori di accordatura costante che ciascuno di noi esercita ogni singolo giorno». Lei a che punto è?
«Ogni giorno si ricomincia da capo tranne che per una sorta di allenamento che regala via via fiato e pazienza. Per me imparare la pazienza è stato fondamentale. Non sono di indole una persona paziente, ma il dolore e il tentativo di resistergli, e poi di lasciare che ti attraversi, richiede una dose di pazienza notevole e quella è un’eredità che spero di tenermi per sempre. Così come la capacità di leggere i miei sogni da sola, dopo averlo fatto a lungo insieme a un’altra persona. Anche i bambini ti insegnano tanta pazienza. Ma deve valerne la pena, di essere pazienti».