Henri Rousseau è stato etichettato come naïf ?per i suoi singolari ritratti ?e paesaggi. Eppure non ?ha mancato di influenzare grandi artisti come Pablo Picasso e René Magritte

U n modello stilistico e formale del tutto anomalo fu quello sperimentato da Henri Julien Félix Rousseau (1844-1910), a cui Alfred Jarry diede il soprannome di Doganiere per l’attività che svolse fino a quarant’anni quando decise di dedicarsi alla pittura: ma artista anomalo, cioè fuori dalle righe dominanti dell’arte del tempo, lo fu anche Gauguin che andò nei Tropici o Van Gogh che vagò dal nord al sud della Francia. Rousseau, a parte il liceo a Laval e un soggiorno ad Angers, nella sua vita non si mosse mai da Parigi. Esentato dal servizio militare, per una questione spiacevole fu condannato a un mese di prigione a Nantes, dove alcuni compagni di cella gli parlano del mondo esotico del Messico e della giungla che divennero temi ispiratori della sua pittura. Una specie di Salgari che mai aveva visto l’India.

Dal 1868 si trasferisce a Parigi e solo circa vent’anni dopo comincia a dipingere singolari paesaggi dopo aver frequentato i pittori accademici Gérôme e Clément e ottenuto un permesso di copista al Louvre. Si lega al “Gruppo degli indipendenti” e grazie a Signac partecipa alle loro esposizioni. Nel 1887 i primi riconoscimenti della critica che rimarca la sua originale vena e la sua “naïveté”. Un’etichetta che gli resterà incollata addosso. Perseguendo il lavoro di scavo sull’arte dell’Ottocento francese Guy Cogeval, infaticabile presidente del Museo d’Orsay, con Gabriella Belli, Musei civici di Venezia, ci presenta una mostra a tutto tondo: “Il Doganiere Rousseau. L’innocenza arcaica” (a cura di Beatrice Avanzi e Claire Bernardi, al museo parigino fino al 17 luglio).


Quel che sorprende in Rousseau, autentico autodidatta, è la sua capacità di trasformare un’immagine realista in un’immagine mentale. Una forma di metamorfosi che ci lascia sempre incantati dinanzi a quelli che lui chiama i “ritratti-paesaggi”: si veda il suo autoritratto (1889-90) a figura intera tutto di nero vestito, con tavolozza e pennello tra le mani, sul fondo la Tour Eiffel e in cielo un pallone aerostatico. Il pittore fu molto affascinato dagli esordi del volo e queste farfalle meccaniche solcano i suoi cieli. Nel ritratto di Pierre Loti (1906), gran viaggiatore dell’Oriente, lo scrittore ha un fez e ha dinanzi un gatto, gli animali sono parte importante delle sue composizioni: quale relazione abbia con il ritratto di Vittore Carpaccio resta per me un mistero.

Le allusioni all’arte italiana sono la parte più debole della rassegna, se si esclude il caso di Carrà. Ben più diretta e intensa l’attenzione di Kandinskij e del gruppo del “Blaue Reiter”. Assai intensi l’autoritratto e il ritratto della moglie con una lampada ai lati: è il Rousseau privato, che dipinge bambini e bambine con inquietanti espressioni quasi da maschere, di qui l’interesse e l’ammirazione di Picasso e Diego Rivera. Come ben si vede nella relazione tra “La bambina con la bambola” (1904-5) e il picassiano “Maya con la bambola” (1938) e, di Rivera, il ritratto di Irene Estrella (1946) in feeling con “Bimbo con la marionetta” (1903). Così come le nature morte di Rousseau rimandano a Cézanne. Ma è il mondo selvaggio ed esotico che fa esplodere la sua fantasia e sono momenti di commovente e allo stesso tempo tenebroso fascino: nel “Sogno” (1910) una donna nuda, in primo piano sulla sinistra, è distesa in un divano di vimini: intorno una flora esotica, con piante verdeggianti, felci e frondosi alberi e uccelli: i fiori aprono i loro petali multicolori alla luce di un sole (o di una luna?). Ma il dettaglio più inquietante è il volto di un leopardo che ci guarda con le pupille sgranate e un altro guarda altrove. “La Bohémienne addormentata” (1897) ha pelle nera e un abito lungo a strisce colorate con una chitarra accanto, ma un leone dalla criniera bianca l’annusa e sul fondo blu una bianca luna illumina la scena. I curatori forse hanno dimenticato l’influenza che tele del genere esercitarono su Magritte.

Le serie della banlieue e della campagna sono tante e Wilhelm Uhde, quando scrisse la prima monografia (1911) su Rousseau, se ne avvide, ed esaltò in modo molto originale: le vedute di Parigi e i suoi dintorni si possono «interpretare musicalmente al piano», per la chiarezza, il candore infantile, con i quali Henri trasfigura case di campagna, sterrati, boschi o “Il Parco di Saint-Cloud” (1908) o, viceversa, ne “Il ponte di Passy” (1890), compare la periferia industriale lungo la Senna con fabbriche e alte ciminiere fumanti. “Una nave nella tempesta” (1899) è una tela insolita, perché il mare il pittore poco lo conosceva, e la tela sembra attinta alla grande tradizione iconografica di scuola inglese che coltivò questi temi in tele e incisioni. Ma tempesta è anche la guerra e una tela inquietante (1894) è certamente quella della donna vestita di bianco con la spada sguainata in una mano che cavalca un furioso cavallo nero, su un groviglio di cadaveri a cui corvi strappano le viscere. Una scena agghiacciante per la crudeltà e epifania dei surrealisti, non certo dell’elegantissimo Paolo Uccello di San Giorgio e il drago inopinatamente associato.

Ma un pittore versatile come Rousseau che dipinge praticamente di tutto, non tralasciando alcun genere, non poteva certo trascurare la storia politica del suo tempo. “I rappresentanti delle potenze straniere rendono omaggio alla Repubblica in segno di pace” (1907), sotto un grande palco sono assiepati i delegati con ramoscelli d’ulivo tra le mani nei costumi più diversi e una figura allegorica con una tunica rossa leva la corona sul capo del Presidente: ai piedi tre vasi con ramoscelli e nitidamente si legge lavoro, libertà, fraternità. Rousseau, che era un convinto repubblicano, mette al primo posto la scritta “travail”. Numerose scene e gruppi familiari messi in posa o che vanno in un biroccio vestiti a festa. Né si sottrae a mettere in posa gli artiglieri di un corpo d’armata e con la stessa versatilità dipinge tre giovani che giocano a pallone. La vita insomma così come scorre sotto i suoi occhi ha una forma che è quasi sempre piatta non incline alle corpose forme delle sue donne, icone della femminilità rousseauiana.

Se dovessi scegliere il genere o il tema che più fortemente marca tutta l’opera di Rousseau non esiterei a mettere in primo piano il paradiso selvaggio da lui dipinto e sono quasi tutte tele che precedono la sua morte: un tramonto operoso che è una sorta di ascesa verso un nuovo mondo, a lui del tutto incognito. Di alcuni ho già detto ma il carniere del pittore è molto ricco: sono di una stupefacente bellezza le foreste tropicali dove si vede un giaguaro che addenta un cavallo inerme, il leone che affonda la sua bocca su un’antilope con una civetta tra gli alberi che guarda impassibile e un leopardo attestato su di un ramo in attesa dell’esito, così come una tigre azzanna un rinoceronte. Deliziose scimmie giocano placide, planando da un ramo all’altro. È di fatto la foresta il vero paesaggio di Rousseau ed esso non è affatto arcaico, ma un’invenzione della sua fantasia, lui i Tropici non li aveva mai visti: semplicemente li sogna e ce li propone come paradiso perduto.