Marina Abramovic, sua ex compagna, è una star. ?L’artista tedesco è rimasto fedele alla sua idea di arte pura e senza concessioni. Ora una giornata lo celebra a Ginevra

È l’uomo che ha fatto piangere Marina Abramovic quando lei immobile come una sfinge, magnetica come un guru, seduta di rosso vestita per 716 ore nella sala del Moma a New York, incarnava un’epocale e mistico-esistenziale performance in cui a piangere erano piuttosto i visitatori che ad uno ad uno le si sedevano di fronte. Finché, dinoccolato, arriva Ulay, suo passato storico amore. Sorridendo la guarda, le prende le mani e Marina si scioglie in lacrime. Anche gli astanti si commuovono tutti, mentre il video, divenuto virale, strazia a sua volta i cuori degli art-addict del web.

Soprattutto chi aveva l’età per ricordare l’addio di quella mitica coppia di performer che nel 1989 si lasciano nell’incontrarsi, dopo aver percorso a piedi tutta la Grande Muraglia cinese. Lui da un lato, lei dall’altro. Da allora Marina ha scalato lo star-system, ha attraversato i confini dell’arte, ha raggiunto uno stato da pop star, ha “performato” con Lady Gaga, calcato red carpet con James Franco e piegato alcuni storici lavori alle esigenze di produzioni pubblicitarie (vedi “Work Relation” del 1978 trasformato in spot per l’Adidas, tra lo sconcerto di molti).

Ulay invece ha proseguito sulla sua strada con teutonica determinazione. Nato nel 1943 a Solingen sotto le bombe degli alleati, appartiene alla generazione di uomini che han visto la luce sotto la guerra, son cresciuti con il senso di colpa per i padri nazisti e hanno raggiunto la maggiore età come cittadini di un paese spezzato.

Tedesco senza Germania, come lui stesso si definisce, Ulay rinuncia al suo vero nome (Frank Uwe Leisiepen) e cambia nazione. Si trasferisce prima ad Amsterdam e in seguito a Lubjana. Abbraccia un progetto radicale sull’identità, gioca con il suo doppio femminile, progetta cicli di lavori sul gender. Sceglie titoli che son già immagini “S’he” o “Pa-ulay” e li mette in scena dividendo, truccando e vestendo il suo corpo metà uomo, metà donna. Poi sperimenta i limiti dello scheletro, dei muscoli, del dolore, della resistenza fisica.

Marina arriva dopo, molto dopo. Dopo che Ulay, apolide per scelta, ha già trovato il suo strumento di espressione: il corpo. «Medium per eccellenza, quello che ci permette di vivere e creare. L’unico oggetto d’arte che parla, respira, sente e pensa. A Joseph Beuys che affermava “ogni uomo è un artista” io rispondo “sono artista anche quando dormo”» così parla ora Ulay.

Ora che il tempo, finalmente galantuomo, sta riconoscendo il suo giusto ruolo. Ora che il 5 aprile a Ginevra nell’ambito di una celebrazione per “Art for the world” torna al Museo d’Art et d’Histoire che fu teatro nel 1977 di una loro famosa performance, per metterne in scena un’altra “Invisible Opponent”, nuova e diversa. Come nuovo e diverso è il suo lavoro dopo che il corpo lo ha costretto a combattere una battaglia contro il cancro, raccontata da Ulay con leggerezza e persino ironia in un bellissimo film del 2012 dove ripercorre tutta la sua vita e opera: “Performing Life”.

Adelina von Fürstenberg lo ha visto e ha capito che proprio Ulay con tutta quella umanità, coerenza, passione poteva essere testimone eccellente per i vent’anni della sua famosa Ong “Art for The World”. Chi più di lui? Uomo che nasce sotto i bombardamenti alleati, si unisce negli anni Sessanta ai Provo di Amsterdam, diventa negli anni Settanta un simbolo della performance e della body art, poi si rinchiude a Lubiana per insegnare e continuare la sua ricerca sui nazionalismi e sui simboli, lontano dalle luci della ribalta. E infine, invecchiando abbraccia un altro progetto dedicato questa volta alla salute del mondo: “Earth Water Catalogue”.

«A volte», racconta, «mi presento così: “Piacere, Acqua”. E quando sconcertato l’altro risponde: “Scusi?” io ripeto “Sono Acqua”. Il mio cervello è per 90 per cento acqua e il mio corpo lo è per il 75 per cento.

Inevitabilmente si inizia un discorso e dal discorso, una presa di coscienza». Sulle acque di Ulay aleggia ora l’ombra degli alberi di Joseph Beuys, il maestro di una nuova Germania, che ha rifondato il senso dell’arte in un’Europa sconquassata. L’uomo che del piantare querce e militare nel partito verde fece un’opera d’arte ritrovando dopo l’apocalisse della guerra l’animo sano della cultura tedesca. Ulay è d’accordo: «Sono convinto che se Beuys fosse vivo si sarebbe riconosciuto e mi avrebbe sostenuto in questo progetto». E così la Germania rifiutata in gioventù torna come spirito cosmico in questa ricerca che vuole catalogare tutti i suoni delle acque, dei mari, dei laghi e il crepitare dei ghiacciai. Progetto su cui Art for the World è già al lavoro. Ulay e Adelina: come potevano non capirsi? Lei nata a Istanbul è più che curatrice una vera militante dell’arte, che ha portato in luoghi imprevisti e su temi imprevisti, con lo sguardo rivolto a una ricerca globale e istanze radicate nei bisogni umani e sociali. Da qui nasce Art for the World e arrivano una valanga di premi: ultimi il Leone d’oro alla Biennale per il Padiglione Armeno da lei curato e il “Meret Oppenheim” che riceverà a giugno a Basilea.

Lui, fedele al suo motto «l’estetica senza etica è cosmetica», non ha ceduto un millimetro alle lusinghe del mondo e dopo la separazione da Marina è rimasto ai margini del mercato e del sistema internazionale dell’arte.

Strano destino: di solito in un divorzio creativo è l’uomo a occupare il palcoscenico e la donna ad essere inghiottita dal cono d’ombra. Questa volta fu Marina invece che usando come piedistallo il comune lavoro, ha poi scalato tutti i gradini della celebrità. Tanto si sono separate le strade che era inevitabile arrivare a un conflitto su quel che resta di un patrimonio comune. Studi legali da una parte e dall’altra sono ormai all’opera per ridefinire diritti e proprietà, mentre il cronista cerca inutilmente una versione di parte. «NNNOO comment!!!» è la netta risposta di Ulay. Impossibile insistere.

Ma lecita comunque sorge la domanda: Marina sarebbe potuta esistere senza Ulay? Mentre è ormai chiaro che Ulay esisteva prima ed esiste dopo Marina. Basta ascoltare le testimonianze che si succedono nel film (che sarà proiettato a Ginevra il 5 aprile per completare l’Ulay Day). Da Chris Dercon (ex direttore della Tate Modern) a Chrissie Iles (curatrice del Whitney Museum) passando per Ann Demeester direttore della De Appel Foundation, il coro è unanime: il rigore e la coerenza di Ulay, il suo lavoro puro, privo di compromessi ne annunciano un prepotente ritorno in scena.

Parlano anche colleghi e compagni di strada, come lui appartenenti a un folto ma riservato ed esistenziale universo di pensatori, artisti, intellettuali. Parlano creature di cultura complessa come Charlemagne Palestine, Chuck Close, Thomas McEvilley. Parlano amici che di mestiere sono invece marinai, parrucchieri, musicisti di strada e tatuatori.

Parla di lui anche Marina che (ancora in buoni rapporti all’epoca) lo aveva invitato alla première del suo film “The artist is present” a Berlino. Eccola con il suo vocione profondo, impostato e flautato, griffata e truccata, tra flash dei fotografi che la immortalano accanto all’amica Andy McDowell. Una vera diva, anni luce lontana da Ulay che vediamo imbacuccato nel suo montgomery cammello. E ancor più lontana da quel vecchio lavoro in bianco e nero dove due giovani artisti estremi si infliggevano prove di resistenza ai confini con l’autopunizione. Severi e sacerdotali, per lo più nudi, indifesi ed esposti nel corpo e nell’animo. Ulay con quel coraggio di raccontare la sua chemio e insieme la storia di una vita ostinata e coerente, è ancora lì a difendere “l’estetica dalla cosmetica”. Mentre Marina, icona dell’art business, marciando su un red carpet è arrivata lontano. Davvero lontano…