Thomas McCarthy, regista de “Il caso Spotlight”, il film candidato a sei Oscar descrive il lungo processo di preparazione ?che lo ha portato a scrivere ?la sceneggiatura insieme a John Singer

«Per documentarmi ho letto talmente tante storie di abusi che in alcuni momenti ho provato una rabbia indescrivibile. Credo che le vittime non vogliano altro che trasparenza da parte della Chiesa e non qualche alto prelato che insabbi tutto». Thomas McCarthy, regista de “Il caso Spotlight”, candidato a sei Oscar, in uscita il 18 febbraio, descrive così il lungo processo di preparazione ?che lo ha portato a scrivere ?la sceneggiatura insieme a John Singer: il film racconta l’indagine da Pulitzer di un gruppo di reporter investigativi del “Boston Globe” (il team “spotlight”), che nel 2002 ha smascherato oltre settanta preti colpevoli di crimini sessuali su minori, coperti ?per anni dall’arcidiocesi ?della città. «Ho sentito ?la responsabilità quando ?ho iniziato a parlare con i giornalisti (interpretati da Liev Schreiber, Michael Keaton, Mark Ruffalo, Rachel McAdams) e con alcune delle vittime», prosegue McCarthy: «Ho capito che bisognava accendere i riflettori su questa vicenda».

Com’è arrivata sulla sua scrivania?
«Me l’hanno offerta ?i produttori, che avevano acquistato i diritti. Il film ?è prodotto da Participant Media, società che finanzia storie su temi seri e per cui avevo già diretto “L’ospite inatteso”, sul tema dell’immigrazione ?clandestina. La loro idea ?è che il cinema debba ?far riflettere gli spettatori, ?in questo caso su una ferita ancora aperta, ovvero la pedofilia nella Chiesa».

Crede che l’avvento di Papa Francesco possa cambiare ?le cose?
«Sono entusiasta della via ?del progresso intrapresa ?da questo Papa e ci sono moltissimi bravi preti, ma la Chiesa resta per molti versi un’istituzione medievale, arroccata su posizioni di retroguardia. Papa Francesco ha già scatenato la reazione negativa di molti cardinali ?e vescovi americani. ?Sono loro il vero problema ?e se mi chiede se cambierà qualcosa, penso che non ?sarà così».

Il film è anche un elogio ?del lavoro dei reporter...
«Il buon giornalismo sta morendo, e noi volevamo sottolinearlo. C’è qualcosa ?di malinconico nel lavoro di chi fa inchieste e se ne sta solo fino a notte fonda a fare ricerche lunghe e difficili. Può essere eccitante, ma anche molto duro. E conoscendo?gli autori di quell’inchiesta abbiamo capito che il giornalismo investigativo è un servizio reso alla collettività».