Con 'Daniel Blake' il regista racconta l’incontro di due persone costrette dallo stato sociale britannico ad arrabattarsi per sopravvivere. «Il sentimento di rabbia si sta propoagando per tutto il paese. E' ora di reagire»

Per molti Ken Loach, 80 anni, è un autore sorpassato almeno quanto le sue idee socialiste: da sempre, dicono i detrattori, mette al centro dei propri film le sofferenze e le battaglie della working class contro le perverse logiche dello sfruttamento. Niente più sorprese, dunque, nel suo cinema. La sorpresa però è arrivata quando la giuria dello scorso festival di Cannes, guidata da George Miller, regista dei Mad Max, ha assegnato la Palma d’oro proprio al suo ultimo film, Io, Daniel Blake, che esce il 21 ottobre e racconta l’incontro di due persone costrette dallo stato sociale britannico ad arrabattarsi per sopravvivere.

Daniel, l’uomo del titolo (il comico Dave Johns, convincente nella parte come sanno farlo solo certi non attori), è un anziano falegname vedovo, che dopo avere avuto un infarto viene messo a riposo forzato dal medico ed è costretto a fronteggiare la spietata macchina della burocrazia per ottenere un assegno di invalidità. Negli uffici dell’assistenza sociale incontra Katie (Hayley Squires) madre single di due bambini piccoli che viene maltrattata dagli impiegati, e tenta di aiutarla come può.

La Palma d’oro assegnata al regista britannico sembra un monito contro un sistema in cui il libero mercato e la salute delle corporation contano ormai più delle persone. Eppure, ricorda Ken Loach quando lo incontriamo, al festival di Cannes non sarebbe più dovuto esserci: “Per girare il mio ultimo film, Jimmy’s Hall – Una storia d’amore e libertà ero stato un anno e mezzo lontano da casa e così ero talmente stanco da arrivare al punto di dichiarare pubblicamente che mi sarei ritirato. Ma poi sono stato a casa seduto in poltrona per una settimana e mi sono reso conto di avere detto una grande fesseria. E mi sono rimesso al lavoro”.

Quali motivazioni e sentimenti l’hanno spinta col suo sceneggiatore di fiducia Paul Laverty a raccontare questa storia?
Io e Paul raccontiamo la realtà attorno a noi, perché è impossibile essere indifferenti a quello che sta succedendo. Il servizio sociale era ottimo in Gran Bretagna ma è stato demolito pezzo dopo pezzo negli ultimi trent’anni, e ancora c’è qualche pezzo che può essere distrutto. Il nostro è un sentimento di rabbia, ma è un sentimento che si sta propagando attraverso tutta la popolazione. Le persone come Daniel Blake ormai costituiscono una vasta parte della cittadinanza, parliamo di milioni di individui, è una tragedia che ha proporzioni epiche. Quindi sì, certamente siamo spinti dalla rabbia, dovuta anche al fatto che questi argomenti non fanno parte della discussione pubblica. E noi con questo film vogliamo avviare un dibattito per capire perché tutto questo sta accadendo e come si possono cambiare le cose.

Crede che di questi temi non si parli abbastanza?
La stampa ormai si conforma a quanto dicono i politici, che ormai controllano tutto, e persino la BBC e i network privati sono complici: se mai questi argomenti vengono dibattuti in tv, il massimo dell’analisi che ci si può aspettare è che questa situazione è conseguenza del libero mercato e i politici faranno del proprio meglio per risolvere le cose. Se non si è direttamente impegnati in politica o in qualche movimento, è difficile per chi guarda le news capire cosa sta accadendo e reagire. La stampa popolare poi ha due bersagli principali: i rifugiati, dipinti come immigrati capaci di ottenere privilegi non riconosciuti ai cittadini, e i più deboli cui lo Stato magari offre qualche benefit, come le madri single cui viene dato un alloggio gratis, mentre agli altri viene negato. E i tabloid inventano le storie più torbide contro persone che in realtà hanno bisogno di aiuto. Mi spiega come si fa a non farsi condizionare?

Che tipo di ricerche ha fatto per questo film?
Io e Paul, che vive in Scozia, ci scambiamo spesso notizie, link, ritagli di giornali. Abbiamo esplorato l’universo del welfare e scoperto storie orribili, molto più drammatiche di quella che raccontiamo nel film: storie di disabili che richiedono accesso a sussidi e li vedono negati. Potrei raccontare decine di storie assurde tratte dalla cronaca: un uomo una volta stava passando il primo test di valutazione al telefono con i servizi sociali, quello che Daniel Blake affronta all’inizio del film, e a un certo punto si è sentito male e ha avuto un infarto. È stato sanzionato perché non aveva completato il test. Avremmo potuto metterlo nel film ma sarebbe stato troppo estremo.

Perché?
Perché non volevamo due protagonisti che sono le classiche vittime sacrificali: Daniel è un uomo che conosce i propri diritti, sa districarsi nella giungla di regole, e Katie frequenta la Open University, è ambiziosa. Noi desideravamo mostrare come anche due persone competenti possono essere bastonate dal sistema. Le dirò di più: alcune persone riescono persino a sopravvivere a questo stato di cose. Guardi Katie, che trasforma il proprio corpo in una merce. In un mondo in cui tutto è una merce, una donna che è costretta a prostituirsi dovrebbe essere eletta imprenditrice dell’anno.

Daniel nel film si trova a dover fronteggiare non solo i call center ma anche i formulari online che lo mettono in difficoltà fino a farlo desistere. Cosa ne pensa dell’utilizzo della tecnologia?
Credo che venga usata per alienare ulteriormente le persone. Un tempo ci sarebbe stato il padrone sul carro a frustare i contadini che lavoravano per lui, mentre ora non ne hai bisogno, usi il call center e puoi umiliare facilmente le persone facendole attendere all’infinito per una risposta che non c’è. Le nuove tecnologie sono state usate non per renderci più facile la vita, ma per ridurre i posti di lavoro, in tutte le industrie, anche la sua. Una volta a un’intervista tv veniva una troupe con cameraman, giornalista, tecnico del suono e magari regista. Oggi molto spesso fa tutto una sola persona, ma la qualità non è certo superiore. Però chi impiega quella persona può ricavarne maggiore profitto.

Come se ne esce?
Credo che andare ancora più a sinistra sia l'unica soluzione. Le corporation sono obbligate ad anteporre il profitto a qualsiasi altra cosa, perché se non massimizzano un’altra concorrente sottrarrà loro gli investimenti. Ma per scardinare tutto questo bisogna diffondere la proprietà, e questo si ottiene con lo stato stalinista oppure con qualche forma di democrazia, in modo che il popolo possa partecipare alla pianificazione. Perché la pianificazione è essenziale, per portare benefici a tutti e non solo a pochissimi. Non si può continuare a far sì che un gruppo sempre più ristretto di persone siano ricche al punto tale che agli altri non resta nulla. Mi pare che 62 famiglie dispongano della stessa ricchezza di metà della popolazione mondiale. Questa tendenza è diventata ancora più estrema negli ultimi dieci anni, i poveri sono aumentati e i ricchi sono sempre meno. Quando finirà tutto questo?

Lei invoca il ritorno della sinistra, ma in alcuni Paesi dove è tornata al potere, come la Grecia, ha dovuto fare i conti con la realtà.
Dipende da cosa si intende per realtà: se per realtà si intende la vittoria inevitabile del capitalismo dei monopoli che produce povertà e disperazione, allora non c’è risposta. Se questo è inevitabile lo è anche la fine del pianeta, perché questo sistema sta distruggendo il mondo: basti pensare al cambiamento climatico, che è figlio dello stesso modello economico. Le persone al potere oggi sono i nostri nemici giurati e dobbiamo domandarci cosa possiamo fare per contrastarli. I greci hanno deciso di combattere, e i professori di Bruxelles hanno sentenziato che il Paese sarebbe stato punito per avere espresso un voto indipendente: questo è il costo che dovrete pagare, gli hanno detto, e purtroppo hanno lasciato loro le briciole. E la sinistra greca non è stata aiutata dal resto della sinistra in Europa. Ma se non cambiamo l’idea dell’Unione Europea in un organismo differente capace di aiutare in maniera genuina tutti i Paesi per ottenere una giustizia economica tra i più ricchi e i più poveri, questi emigreranno per sopravvivere. Io non ho mai creduto all’idea di uscire dall’Europa per distruggerla, ma di restarvi dentro per cambiarla.

Il futuro le fa paura?
Ho paura per i miei nipoti, non so quando tutto questo finirà. Come si fa a immaginare oggi cosa succederà alle persone che vivono in quelle nazioni dove l’innalzamento delle maree costringerà a esodi biblici? Siamo attanagliati dalla paura, la paura è ovunque e colpisce i più deboli, ed in parte è causata dagli stessi governi: come il mio Paese che è andato in Iraq, lo ha distrutto e ha provocato una destabilizzazione che, in ultima analisi, ha provocato il problema dei rifugiati.

Crede che ci voglia una rivoluzione?
Quando si pronuncia quella parola la gente pensa ai soldati, i carri armati o la ghigliottina. Penso che ci siano molte persone che non riescono a vedere come avanzare verso un vero cambiamento se non attraverso una rivoluzione, ma quale forma questa possa prendere oggi davvero non so dirle.

Però poi quando escono notizie come quella dei Panama Papers, la gente sembra rassegnata...
L’ironia è che la gente legge la notizia degli evasori dei Panama Papers, e poi pensa che il vero problema sia che il vicino di casa prende 10 sterline la settimana in più di loro dallo Stato.

In questo panorama lugubre c’è ancora spazio per la speranza?
La fonte di speranza, come si vede anche nel film, è nella solidarietà della gente che offre il proprio aiuto disinteressato, come la donna dell’ufficio di collocamento che rischia il proprio posto dando aiuto a Daniel Blake o come i suoi vicini di casa. O come la donna del banco alimentare. Io le ho incontrate queste persone del banco alimentare, di solito sono nonne e sono divertenti, positive, brillanti e trovano soluzioni anche nei casi più disperati. Potrebbero governare il mondo