Criticato a Venezia, osannato a Londra: il regista di 'A bigger splash' racconta perché i suoi film piacciono tanto all'estero e tanto poco in patria

Nemo propheta in Patria. Di certo non lui: Luca Guadagnino, regista dal profilo internazionale, forse anche troppo per molta critica e accademia italiana. Pochi film ma (soprattutto gli ultimi) accuditi da produzioni forti con bandiere francesi e americane. Un lungo sodalizio con una grande musa da cinema d’autore come Tilda Swinton. Premi e candidature importanti (il suo “Io sono l’amore” entrò nella short list dei Bafta e Golden Globe) ma fischi nella curva sud della stampa&critica nazionale a Venezia. Così fu, anche per questo ultimo “A Bigger Splash” (in sala a fine novembre). Un sofisticats variazione in chiave rock di “La piscina”, il noir di Jacques Deray. Atmosfere di tensione che fin dal titolo richiamano le immagini bloccate dalla pittura di David Hockney. Grande cast: l’immancabile Tilda più Ralph Fiennes, Dakota Johnson, Matthias Schoenaerts. Accolto con calorosi applausi del pubblico del London film festival. Qui, nella stracolma sala dell’Odeon Leicester Square, il nostro regista in perfetto inglese e impeccabile smoking ha presentato il suo film. Qui l’abbiamo incontrato per parlare di cinema ma soprattutto per trovare risposta alla domanda: perché divide così tanto i cinefili?

La critica ufficiale italiana non è generosa con le sue opere eppure lei continua a portare i suoi film in concorso alla Mostra di Venezia. Dopo gli ultimi fischi non si è pentito?
«Assolutamente no. “A Bigger Splash” al Lido era a casa sua. E anche casa mia, dal momento che ho debuttato lì nel 1989 e da allora sono stato sempre invitato. Partecipare a un concorso di quel livello per un film e per un cineasta è sempre positivo. È lì che la critica internazionale ha visto il mio lavoro e lo ha accolto. Da lì è partita un’onda che mi ha regalato attenzione all’estero».

All’estero appunto, ma in Italia?
«Che devo dire? Mi delude il modo in cui qui vengono guardati i film (fatta salva una solida schiera di critici con un punto di vista che mi aiuta a capire il mio lavoro). Per gli italiani come vulgata io sono un “deficiente de’ mamma” e ora, dopo i fischi, gli osservatori internazionali  si chiedono perché il mio cinema è così divisorio nel mio paese».

E lei cosa risponde?
«In realtà me lo chiedo anch’io: ma perché fischiano? Per il modo in cui sono ritratti gli italiani del film? Perché non riescono a superare l’impatto della prossimità che hanno con personaggi scomodi? Perché la vista della miseria e della disperazione fa paura?»

Anche “Io sono l’amore” divise gli animi e, fra le polemiche, non fu scelto per la candidatura all’Oscar come miglior film straniero. Eppure lì non c’erano profughi, ma una Milano ricca.
«La Milano ricca come il maresciallo di provincia sono soggetti tabù per il cinema italiano che ha bisogno di adesione sociologica o di discorso politico light sulla realtà. Quando racconta classi sociali rarefatte (estrema povertà o estrema ricchezza) lo fa solo con tono grottesco o di critica sociale, mai in termini mimetici. Qualcuno disse che il nostro è un cinema di piccola e media borghesia, fatto da piccoli e medi borghesi che quando raggiungono il salto di status se la prendono con i piccoli e medi borghesi. A mio avviso invece un film ha il compito di aprire finestre su mondi diversi e osservare qualcosa di invisibile nel paradigma di realtà: purtroppo questo concetto del cinema come verità non c’è più dagli anni Ottanta, anche perché l’Italia intera culturalmente e intellettualmente si è contratta, rinchiusa, impoverita, disidratata. E il cinema è un riflesso del paese».

Faccia anche un po’ di autocritica però! Se lei non è amato non può essere solo colpa degli altri…
«Ma io sono amato! Ho amici cari cineasti. Credo nel rapporto artistico, nell’incrocio delle personalità, dialogo con molti colleghi registi, direttori della fotografia, produttori, attori. Sono anche produttore, e lo faccio con felicità. Amo l’idea che altri autori realizzino i loro film e mi adopero per aiutarli!»

Qualcosa si dovrà pure rimproverare.
«Non mi devo rimproverare granché. Forse il mio modo di parlare? Di articolare la conversazione? Di dire quello che penso? Di pretendere che si facciano film e non sceneggiature filmate? Sono antipatico perché guardo al cinema in termini massimalisti? Pago il vizio giovanile di quando i miei giudizi, anche per il piacere di ascoltarsi, mi hanno portato ad eccessivi fuochi di artificio critici? Perché io nasco critico prima che cineasta».

E la formazione da critico che influenza ha sul suo lavoro?
«La riflessione sul cinema è il motivo per cui faccio cinema. Ora la critica e i giornali parlano solo di confezione, attori, effetti ma sono argomenti contrari al linguaggio di una critica cinematografica. Io mi sono laureato con una tesi su Jonathan Demme. Ho verificato studiando che anche il cinema Hollywoodiano è cinema politico; che si può essere un cineasta pieno di seduzione ma allo stesso tempo assolutamente radicale. Oggi manca un regista italiano che riesca a fare “qualcosa di travolgente” (“Something Wild” capolavoro di Demme, ndr.) su questa Italia di yuppie renziani. Qualcosa in cui una “Lulù” di Pabst si manifesti nuovamente, scuota questa casta di conformismo e faccia uscire gli istinti radicali, animali, sovversivi di questo rottamatore. Come Demme faceva in piena era Reagan nel 1987: un discorso radicale sul presente in forma di commedia».

Dunque non le piacciono gli attuali cineasti italiani
«Il cinema italiano è pieno di  giovani cineasti sorprendenti da Alessandro Comodin e la sua “Estate di Giacomo” a Stefano Mordini, cineasta e documentarista che di sicuro mostrerà al mondo la sua grandezza, fino ai momenti luminosi di Alice Rorhwacher. Tutti nomi che sono motivo di orgoglio per una nazione. Nei film che vanno di moda vedo invece un cinico narcisismo di chi lo fa, come se mancasse generosità persino negli esiti più estroversi».

Cosa intende esattamente?
«Vedo film che nascono dall’equivoco di credere che il post moderno significhi frullare con stile videoclip musichette ye-ye e cori sacri, tutto indistintamente. Io ho imparato dai francesi e dai “Cahiers du cinéma” che c’è sempre una responsabilità nell’immagine che si crea ed è una responsabilità del significato che parte dalla forma. Purtroppo la fortissima industria americana è riuscita ad esportare in tutto il mondo un imperante modello creativo. Dire che un regista “gira bene” significa sempre dinamismo, naturalezza di interpretazione, un po’ di effetti al punto giusto. Quindi molti italiani che oggi “girano bene” sono pure imitazioni di quello stile. Ma l’Italia è il Cinema, la patria di Rossellini e Blasetti e credo meriterebbe qualcosa di autoctono che nasca da identità personali».

In realtà, Guadagnino, è lei ad essere accusato di scarsa italianità. Basta citare “A Bigger Splash”: produzione americana, star system, musiche originali dei Rolling Stones… Tutte cose irraggiungibili per un budget italiano
«Facciamo i conti: “A Bigger Splash” è costato una decina di milioni di euro. La metà di “This must be the place” di Paolo Sorrentino e parecchio meno del “Racconto dei racconti” di Matteo Garrone. Quindi non ho avuto per le mani niente di stratosferico. Quel che ha contato, nel mio caso è stato costruire un progetto con molta pazienza e saperlo presentare. I Rolling Stones erano un punto di partenza. Abbiamo scritto il personaggio di Ralph Fiennes come produttore dei Rolling Stones, non di una qualsiasi rock band. E questo film si poteva fare solo con il loro permesso. Ho corso un rischio, ma sapevo che avrebbero accettato perché mi sentivo nel giusto, e a costo di sembrare arrogante, ero certo che eravamo riusciti a comprendere la loro natura e inserirla in una storia contemporanea. Non volevo i Rolling Stones come decorazione, volevo che fossero un personaggio del film. Così come è stato per “Io sono l’amore” con la musica di John Adams quando ho persino girato sequenze con le sue musiche sparate direttamente sul set. E l’ho fatto prima ancora di averne l’utilizzo».

Tra le critiche ricevute che cosa l’ha più stupita o ferita?
«Mi hanno ferito i toni. Per questo non le leggo più direttamente, me le faccio raccontare. Poi mi ha spaventato la violenza nel web e la libertà di dire ogni cosa anche dall’alto della propria ignoranza. Mi ha stupito in conferenza stampa a Venezia chi mi accusava di aver fatto un cattivo servizio all’Arma dei Carabinieri. Mi è sembrato di essere caduto nel 1928, in un Minculpop spiazzante e inaspettato».

Come si è difeso dal vilipendio all’Arma?
«Dicendo che Guzzanti nel film non rappresenta l’Arma ma un signore che lascia andare via dei probabili colpevoli in cambio di un autografo. Perché comunque sa bene che non c’è via di comunicazioni tra i due mondi e la fama vince sulla legge. Ma questo non vuol dire che fosse un giudizio sull’intera Arma».

Quanto conta, o costa, essere siciliano?
«Forse conta più essere algerino come mia madre. Io mi sento sono apolide, sono cresciuto in Etiopia e poi a Palermo, ho studiato a Roma, viaggiato nel mondo... Mi soffocano le situazioni precostituite, ho bisogno di stare sempre in movimento. Ma dalla essenza siciliana ho ereditato una sorta di retaggio blasé come parte della vita. È per questo che ad alcuni sono tanto antipatico?».