Affascina gli studiosi, perché non si rigenera e obbliga i pazienti a protesi artificiali. I principali ricercatori del mondo provavano a crearla da anni in versione biologica. Senza riuscirci. Ce l’ha fatta un dottorando dell’IIT di Genova, che ha presentato il suo studio durante una conferenza internazionale a Boston

Arriva all’Istituto Italiano di Tecnologia con un maggiolone anni ’70, la camicia celeste e una barbetta bionda appena accennata. Luca Coluccino ha 28 anni e una laurea in ingegneria biomedica. Le articolazioni delle ginocchia sono la sua passione: lo si capisce dalla tesi di laurea con il CNR e dal dottorato di ricerca all’IIT di Genova, dove studia dal 2013 come ricostruire e riparare le cartilagini.

Lo scorso anno, durante un periodo di studio a Pittsburgh - la città della Pennsylvania famosa per Flashdance e le antiche industrie dell’acciaio - Luca ha azzardato: «Ma perché invece di fare protesi artificiali non proviamo a creare una cartilagine vera? Una cartilagine senza nulla di sintetico, biologica, umana. E poi usiamo questo tessuto senza forma come “inchiostro” per una stampante in 3D».

LE CARTILAGINI: «AFFASCINANTI, PERCHE’ NON SI RIGENERANO»
Poteva sembrare un’idea un po’ folle. Creare la cartilagine è l’ambizione dei gruppi di ricerca più avanzati al mondo. Negli Usa, in Corea del Sud e Paesi Bassi ci provano da anni, senza successo. Ma Luca Coluccino e il team con cui lavora – il gruppo Smart Materials del Dipartimento di Nanofisica dell’IIT di Genova – ci sono riusciti. E a metà settembre hanno spiegato come fare al TERMIS di Boston, la conferenza mondiale di riferimento nel campo della medicina rigenerativa.

Il palazzone dell’IIT è a Morego, nella periferia dell’entroterra dove Genova diventa campagna. Luca lavora al quinto piano e solo a parlare di cartilagini gli si illuminano gli occhi. «Sono affascinanti perché a differenza di altre parti del corpo non si rigenerano. Non essendo vascolarizzate non ricevono sangue, e quindi non comunicano con il resto dell’organismo», spiega mentre indossa il camice bianco. «Con un braccio rotto basta mettersi il gesso e aspettare, mentre se un adulto ha una lesione grave a una cartilagine la situazione è più complicata. Ci sono solo cure palliative, in attesa della sostituzione totale dell’articolazione con protesi fatte di leghe metalliche o plastiche. Ma sono parti estranee al corpo umano, per cui causano problemi di un possibile rigetto. E non durano all’infinito».

IIT, CNR, UNIVERSITA’ DI PITTSBURGH: UN LAVORO DI SQUADRA
Negli ultimi anni molti ricercatori nel mondo hanno studiato alternative biologiche alle protesi, perché costano di meno e hanno caratteristiche migliori. Ma i risultati non sono mai stati definitivi e ottimali. Partendo da una tecnica già in uso in alcune ospedali, soprattutto negli Usa, si è ora arrivati a un risultato sognato da tempo. L’IIT in collaborazione con il team della professoressa Silvia Scaglione del centro IEIIT del CNR di Genova (l’Istituto di elettronica e di ingegneria dell’informazione e delle telecomunicazioni) e il dipartimento di chirurgia ortopedica dell’Università di Pittsburgh (dove Coluccino era sotto la guida del ricercatore Riccardo Gottardi) ha trovato la “ricetta” per ricostruire tessuti umani danneggiati come cartilagini, tendini e menischi.

Ad ascoltare Luca Coluccino sembra quasi semplice. La tecnica sviluppata prevede l’utilizzo di una sostanza estratta da tessuti organici (per esempio la cartilagine): viene trattata chimicamente, sino a diventare un liquido biancastro che ha perso tutte le informazioni che nel corpo di un'altra persona potrebbero dare reazione immunitaria. «Solo una caratteristica deve rimanere: la “memoria” di essere una cartilagine», precisa Luca Coluccino. Questo liquido chiamato dai ricercatori “gelatina” viene quindi unito alle cellule staminali del paziente - cellule non ancora adulte che possono svilupparsi nella direzione che si desidera - e sottoposto per circa 60 secondi alla luce dei raggi uv (una luce violacea, simile a quella che usa il dentista per indurire la pasta delle otturazioni).

Il risultato è detto “idrogel” ed è un composto vivo, morbido ma compatto. Molto simile alla cartilagine e compatibile dal punto di vista biologico con l’ambiente nel quale verrà inserito. «Il problema è che le staminali sono estremamente difficili da guidare», aggiunge Luca Ceseracciu, ricercatore del gruppo Smart Materials e uno dei supervisori di Coluccino. «Perché devono prendere la direzione che vogliamo in una strada senza indicazioni. Basta poco per sbagliare».

L’IIT: «NULLA FUNZIONA MEGLIO DELLA NATURA»
Gli esperimenti dei gruppi di ricerca internazionali si fermavano proprio a questo punto: la cartilagine trattata non si “ricordava” più di essere una cartilagine e quindi non riusciva a guidare le staminali. Luca Coluccino e il suo team invece ci sono riusciti. Una volta che la nuova cartilagine è messa “in coltura” (in vitro, dove viene simulato in laboratorio la situazione del corpo umano), resta tale. «Perché è davvero un pezzo di cartilagine», spiega Coluccino. «E lo stesso accade con un pezzo di tendine o di menisco».

La soluzione trovata dai ricercatori mima il meccanismo rigenerativo naturale che avviene in individui giovani ed è un chiaro esempio di “bioispirazione”, la corrente di pensiero scientifico che costituisce la linea di azione dell’IIT. «Niente funziona meglio della natura», spiegano Ceseracciu e Coluccino. «In milioni di anni ha prodotto il mondo di oggi e mediante l’evoluzione ha trovato le migliori soluzioni per quasi tutti i problemi. L’importante è comprenderne i meccanismi e riuscire a replicarli».

L’OSPEDALE DEL FUTURO: LA CARTILAGINE STAMPATA IN 3D
Al TERMIS di Boston sono stati presentati anche gli sviluppi futuri di questa tecnologia. Superati i test per passare dal laboratorio alla pratica medica, nel medio periodo (tra i 5 e i 10 anni) potrebbero essere disponibili negli ospedali - su larga scala e a costi ridotti - dei kit di riparazione per la chirurgia ortopedica. Basterà mischiare il composto con le cellule staminali del paziente per creare nuova cartilagine. E diventerà proprio la “sua” cartilagine, perché è da lui che è stata riprodotta.

Davanti a un problema con l’articolazione del ginocchio, per esempio, ci saranno due soluzioni: iniettare la nuova cartilagine con un semplice intervento in artroscopia - in un modo molto simile all’operazione che compie un dentista, quando applica la pasta per l’otturazione - oppure usare la stampante in 3D. «Il bio-printing con materiale biologico è un campo in via di sviluppo e proprio per questo molto affascinante», sorride soddisfatto Luca Coluccino. «Con la nostra tecnica potremo progettare al computer parti di ricambio del nostro corpo. E a quel punto “stampare” un pezzo di cartilagine della forma esatta in cui serve. L’idea era nell’aria da tempo: bisognava solo trovare l’inchiostro».