Autoritratti. Nudi conturbanti. Incisioni certosine. Gruppi di famiglia. Alla National Gallery in mostra le opere tarde del maestro olandese

Nell’Olimpo dell’arte Rembrandt van Rijn è una personalità che non conosce tramonto e non solo nel Secolo d’oro della pittura olandese. Nato nel 1606 a Leida, un piccolo centro vicino ad Anversa, Amsterdam e L’Aja - capitale della Repubblica delle sette province unite - era figlio di un mugnaio. In giovinezza ebbe come maestri, a Leida, Jacob van Swanenburgh, che era stato a lungo a Napoli, e, ad Amsterdam, Pieter Lastman, che era stato cinque anni a Venezia e a Roma.

Un apprendistato essenziale, visto che Rembrandt mai si mosse dai Paesi Bassi. Grazie a loro ebbe modo di familiarizzare con l’arte italiana e in età matura fu attento collezionista di disegni e incisioni di Tiziano e di Annibale Carracci, e ammirò il tedesco Adam Elsheimer, di cui vide la bellissima “Fuga in Egitto”. Questi brevi cenni solo per dire come maturi il talento di uno dei più prodigiosi pittori del secolo: fu sommo ritrattista, pittore di storia sacra e profana. I suoi autoritratti incisi, disegnati e dipinti assommano a circa quaranta e vanno dalla prima giovinezza alla vecchiaia: un caso eccezionale nella pittura di ogni tempo. Ma la bella moglie Saskia, il figlio, gli amici, i notabili della città figurano in questa galleria.

La spettacolosa mostra “Rembrandt. Le opere tarde”, a cura di B. Wieseman, J. Bikker e G. J. M. Weber, alla National Gallery che ne possiede molti capolavori (Londra, fino al 18 gennaio, poi al Rijksmuseum, Amsterdam dal 12 febbraio al 17 maggio) mette a fuoco il prodigioso tramonto di un artista che non conobbe crisi, anzi invecchiando dipinse alcune delle sue più splendide tele e incise fogli di pari levatura. L’esposizione è scandita in sette sale: si inizia dagli autoritratti, si passa al tema della luce e delle tecniche, alle grandi composizioni della vita sociale della comunità contemporanea, ai ritratti di notabili, fino alla dolce intimità e alle grandi composizioni sacre.

Un panorama con quaranta tele, venti disegni e trenta incisioni della sua prodigiosa operosità che abbraccia l’arco di tempo dal 1650 alla morte, giunta nel 1669. Negli autoritratti che precedono questa stagione si compiace nel raffigurarsi in abiti eleganti e in quello “con camicia ricamata” (1642) il riferimento al “Baldassarre Castiglione” di Raffaello è evidente: l’artista cercò di acquistarlo quando fu battuto all’asta. Negli autoritratti tardi è scomparsa qualsiasi vanità e si leggono in volto i segni di una vita tribolata. Indossa abiti di lavoro, il volto emerge dal buio e su di esso batte la luce sempre solo su di un lato.

In quello con due (misteriosi) cerchi sul fondo (1669) Rembrandt si presenta con gli strumenti del mestiere, tavolozza e pennelli in mano: i lineamenti sono appesantiti, spicca il tipico naso grosso, ma gli occhi brillano e lo sguardo è quello di chi è consapevole di sé, malgrado le disavventure private. Non è il giovane spavaldo che abbiamo conosciuto e la stessa tecnica è mutata: non più piccoli tocchi, ma la pennellata è densa e spessa, e la grana del colore assorbe la luce, quasi un memento del tardo Tiziano. Ma il volto esprime l’austera dignità di un mondo che tramonta con lui. È un dipinto fortemente drammatico di un uomo che ha conosciuto il successo, la fortuna economica e la felicità coniugale. Il figlio Tito è raffigurato nel felice ragazzo che legge o al tavolo, o in abito da monaco: Tito ha i tratti fini della madre, boccoli biondi e morì giovanissimo.

Rembrandt è capace di dipingere scene disinibite e, se non si vuol risalire alla nuda “Danae”, “Betsabea con la lettera” (1654) è un’eroina biblica integralmente nuda che riceve perplessa la lettera di David, soprapensiero essendo la moglie di Uria: ancora una volta rintocca la memoria di Tiziano, e il cadorino è una presenza costante. I suoi nudi fecero scalpore e suscitarono reazioni piene di acrimonia. Rembrandt anche nei nudi è anticonformista: la coeva “Fanciulla che si bagna in un ruscello” con la veste sollevata che appena copre l’inguine, mostra con naturalezza il bel corpo candido che emerge dalla tela. Un olio che ci fa capire come l’uomo fosse capace di spingersi a un vero erotismo senza lo schermo del mito che si ritrova in “Lucrezia” (1666). Lo stesso si può dire dell’incisione con la “Donna al bagno” in tal caso seduta. Incline invece alla tenerezza coniugale la composta e stupenda coppia della “Sposa ebrea” (1665): con gli abiti eleganti della cerimonia lo sposo appoggia la mano sul corpetto di lei e l’accarezza. Teneri i gesti e amorevoli gli sguardi: il gioco di mani sancisce una tacita promessa di fedeltà ed è il centro della tela. Ma Rembrandt non è solo capace d’indagare l’animo umano di una coppia con una sensibilità e una finezza d’introspezione che infrange ogni luogo comune della vita domestica nella ricca società di Amsterdam. Taluni disegni e incisioni di paesaggio illustrano la campagna e i canali dello Amstel.

La storia contemporanea emerge con forza nel grande ritratto di gruppo commissionato dalla Confraternita dei mercanti,“I sindaci dei Drappieri” (1662), che sono sei e dei loro volti ci sono disegni di studio: essi esaminano, su un tavolo ricoperto da un tappeto rosso, il campionario dei tessuti. La scena è presa dal basso verso l’alto e la sequenza è interrotta dal segretario che si alza e guarda l’osservatore quasi interdetto per l’intrusione. Tra quelli seduti due hanno in mano un libro mastro e uno le stoffe, e ci guardano. Una felice soluzione scenica di cui Rembrandt fu maestro che reinventa un soggetto tradizionale nella pittura olandese e fiamminga. La tela di grandi dimensioni (191 x 279 cm) e la felice accoglienza ripagarono il pittore del cocente rifiuto che aveva avuto dal Municipio di Amsterdam dopo aver dipinto il “Giuramento dei Batavi” (196 x 309 cm), che raffigura un remoto episodio della storia olandese con la congiura di Giulio Civile: una scena notturna che celebra un rito arcano con il condottiero guercio che leva la spada incrociata dai suoi sodali. Quello che impressiona è la velocità della pennellata, le luci che battono sugli abiti, la perfezione di ogni dettaglio (si veda la collana di Giulio). E questo non è che una parte di un originale assai più lungo: il frammento fu rinvenuto nell’Ottocento in un deposito del Museo di Stoccolma. Uno schizzo a penna e acquerello mostra quale fosse l’architettura in cui è inserita la scena.

Rembrandt fu un incisore straordinario, aveva nel suo atelier il torchio per la stampa e lavorava sui rami con accanimento: di molti fogli si conoscono fino a otto versioni. Memorabile l’“Ecce Homo” (1655), un’acquaforte a punta secca: la composizione è centrata, la scena architettonica ha sui lati le statue della Giustizia e della Fortezza: su un alto podio Pilato presenta Cristo e Barabba al popolo radunato sotto. Negli otto stati eseguiti, anche per l’usura del rame, Rembrandt modifica la composizione: relega il popolo ai margini e al centro lascia un vasto rettangolo nudo, a cui aggiungerà due archi che affiancano una testa barbuta. La drammaticità della scena è esaltata da quel rettangolo bianco che solo un artista di genio poteva concepire. Se pure Rembrandt non avesse dipinto “La ronda di notte”, basta questo piccolo foglio per dire della sua grandezza.