È stata la più bella, la più fragile, la più moderna. A tanti anni dalla morte non è mai stata così viva. Perché ha incarnato come nessuno le ansie del nostro tempo. Le sue contraddizioni. Ma la sua grazia continua a consolarci
A giocare col fuoco ci si brucia, e nessuno rimprovererà mai abbastanza a Michelle Williams di aver osato fingersi Marilyn. Come fosse solo questione di biondo, da riprodurre con sufficiente ossigeno. O di curve tenere e insieme esplosive, da simulare con corsetti imbottiti. Ma non c'è modo di avvicinare la divinità mettendosi d'impegno: non si può diventare Marilyn. Nemmeno a Norma Jean riusciva tutte le volte.
Però ci proveremo, quest'estate, a risolvere il suo enigma. A capire perché solo lei, tra tutte, ci ossessiona così. A tanti anni dalla sua scomparsa - era il 5 agosto del 1962 quando la trovarono morta con 8 milligrammi d'idrato di cloralio e altri 4,5 di Nembutal nel sangue - è viva come nessuna, nel nostro immaginario. Le vengono dedicati film, mostre, libri, omaggi, rievocazioni. Dal Festival del cinema di Cannes da poco terminato fino alla mostra "Marilyn", che si apre al Museo Salvatore Ferragamo a Firenze il 20 giugno, il suo fantasma biondo attraversa le nostre fantasie. Ben lungi dall'essere una polverosa icona per cinéphiles, Marilyn Monroe è creatura dell'oggi. Moderna e contemporanea come non lo è alcun altro mito del cinema: né Brigitte Bardot né Elizabeth Taylor, né Sophia Loren né Rita Hayworth. Come lei nessuna mai.
"È stata una sorpresa. Ne avevo un'immagine distorta: la trovavo sexy, certo, meravigliosa, ma datata", racconta Stefania Ricci, curatrice con Sergio Risaliti della grande mostra fiorentina: "E invece lavorandoci, entrando dentro la sua storia, ho scoperto quanto sia moderna. Ho scoperto la sua contemporaneità, la sua complessità. Marilyn Monroe non era affatto una sciocca. Per esempio gestiva il suo successo - quando era necessario - con spietatezza: addirittura, certi maltrattamenti che fanno parte storicamente della sua biografia pare fossero, almeno in parte, inventati. Le servivano a costruire il suo personaggio. I suoi scritti, le lettere, le stesse poesie, ci raccontano di una donna che in comune con quelle di oggi ha la complessità della vita. A Lee Strasberg scriveva che il lavoro era l'unica cosa che contasse davvero per lei; che grazie al lavoro riusciva sempre a risorgere". Dai tanti fallimenti sentimentali, per esempio. "Le donne si ritrovano profondamente nel suo rapporto con l'amore", prosegue Stefania Ricci: "Il suo fascino e il sex appeal ipnotizzavano gli uomini, ma la condannarono a essere percepita come pura esteriorità: una creatura a una sola dimensione, quella erotica. Per contrappasso, probabilmente, Marilyn aveva il mito della cultura e degli intellettuali. E uno riuscì infatti a sposarlo, Arthur Miller". Ma lei, pur bionda, pur morbida, era già così "misfit", spostata, nevrotica, che fece di tutto per farsi lasciare. "Le sembrava impossibile che Miller l'avrebbe amata per sempre. Era sicura che prima o poi l'avrebbe abbandonata, così lo sottopose a prove continue per sfinirlo e costringerlo davvero a lasciarla. Era incapace lei stessa di accettarsi". Wystan Hugh Auden aveva da poco scritto "L'età dell'ansia".
La mostra, e il suo catalogo, provano a raccontare la complessità di Marilyn Monroe attraverso più filoni. Le danno corpo recuperando 30 paia delle sue scarpe (amava quelle di Ferragamo, sempre décolleté a tacco 11) e 50 dei suoi abiti, ormai oggetto di culto e acquistati dai collezionisti alle aste a prezzi da capogiro. Presentano filmati e documenti originali, che svelano la sua perenne ambivalenza: quel dibattersi tra forza e fragilità, sensualità e innocenza, sesso e cervello. Il corpo è la sua trappola, e ambivalenti sono anche le reazioni che provoca negli uomini, divisi tra il desiderio e la rabbia di non poterla mai definitivamente possedere. "Ha elevato la vulnerabilità a livello della grazia", ha scritto di lei Gérald Hustache-Mathieu, autore del film a lei dedicato "Poupoupidou". L'inferno delle donne, avrebbe detto Arthur Rimbaud.
Quella femminilità sorridente e segretamente ferita suggeriva ai fotografi - da Cecil Beaton a Bert Stern, da Milton Green a George Barris - richiami mitologici. Archetipo della bellezza, Marilyn è Venere contemporanea e bomba sexy, ingenuità e provocazione, angelo biondo e icona pop. Da icona pop appare perfino la sua morte. Una fine che la apparenta ad altre dee fragili di oggi, incapaci di reggere al proprio talento, al loro essere fuori misura: Whitney Houston e Amy Winehouse. "Whitney Houston muore nell'acqua come l'Ofelia di Shakespeare, personaggio che Marilyn amava molto", commenta la curatrice: "Nel '56 scrisse: "Mi troveranno morta in una stanza di un motel". Era una donna di grandissima sensibilità, e la sua storia è quella della difficoltà estrema, per una persona come lei, di gestire il successo senza farsene stritolare. Difficoltà che non sfuggì a Pier Paolo Pasolini. Lui l'aveva capita perfettamente. E la trasformò in Astrea".
Astrea: in Ovidio è la vergine dea della giustizia, che per ultima abbandona per l'Olimpo la terra devastata dalla crudeltà e dalla stupidità degli uomini. È a lei che un Pasolini turbato dalla morte dell'attrice accosta Marilyn Monroe. La "Poesia a Marilyn" fu scritta poco dopo la scomparsa, e più tardi venne inserita in un "cinepoema", grande composizione fatta di immagini, versi e musica dentro un film di montaggio del 1963, "La Rabbia". "Pasolini conosceva bene la mitologia e la applicava all'interpretazione della realtà", interviene il professor Sandro Bernardi dell'Università di Firenze, autore del testo sul rapporto tra il poeta e l'attrice per il catalogo della mostra di Palazzo Spini Feroni. "Per lui il mito era affabulazione secolare in cui si era sedimentata l'esperienza di migliaia di anni, così di Marilyn diede una lettura mitica. Ne era affascinato, e vide nella tragedia della sua morte l'occasione per riprendere i miti della fine del mondo, riversandovi angosce contemporanee: le paure degli anni Cinquanta per le armi sempre più potenti e spietate, per la bomba atomica. Pasolini aveva il gusto della contraddizione umana. Nella "Supplica a mia madre" aveva scritto: "È dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia". Nella morte di Marilyn, il poeta vede la fine della bellezza, la sua fragilità, e l'angoscia subentra. Perché per lui bellezza è giustizia, bello e buono coincidono, kalòs kai agathòs. La morte di Marilyn è ingiusta, è smarrimento, è confusione, è perdita di senso. È il prodotto tragico del consumismo: l'amore del pubblico è avido, e la brucia. "Il successo comporta troppe lacrime ingoiate", scrive: "Darsi al pubblico è darsi in pasto".
Mitologica, dunque, la Marilyn di Pasolini, ma allo stesso tempo pienamente e tragicamente figlia del suo tempo: donna di origini povere, che a lui piaceva moltissimo perché si era conquistata con ironia e grazia la propria autonomia. Ma non le era stato perdonato. "È questo che nella sua vicenda umana commuove così profondamente Pasolini", conclude Bernardi: "L'impossibilità della donna di affermarsi. La sua storia gli dice che la donna che prova a farlo finisce in ogni caso tragicamente".
"Goodbye Norma Jean", canterà anni più tardi Elton John, nella sua canzone forse più bella di sempre. Che oggi accostiamo con la memoria ad un'altra donna bionda molto amata, fragile eppure forte, Lady Diana, simbolo anche lei di ogni ambivalenza dell'oggi. Ma "Candle in the Wind" era nata come, e resta, dolente ballata per Marilyn, e la ragazza che era stata prima di diventare patrimonio di tutti: "Your candle burned out long before, Your legend ever did".