Un film con i fratelli Coen. Un altro diretto da Clint Eastwood. E una pellicola tratta da un libro di Coetzee. È un momento magico per il leggendario attore e regista. Colloquio con John Malkovich

John Malkovich non si guarda mai allo specchio. Appena un'occhiata al mattino, quando rifinisce la barba che ha lasciato crescere un po' più lunga sulle guance pallide. "Non mi piace soffermarmi sulla mia immagine. Io sono quel che sono. La smania di definirmi la lascio agli altri". Definirlo, in effetti, non è un'impresa facile. Attore, regista, produttore, corpo e volto mutante a servizio di caratteri inquieti, Malkovich è un po' Valmont e un po' Port Moresby, eternamente sospeso tra la squisita efferatezza de 'Le relazioni pericolose' e il languore de 'Il tè nel deserto'. Visto da vicino, con la pelle diafana e un'eleganza ultraterrena che lo rende vagamente alieno, si fatica a immaginarlo preso negli ingranaggi della macchina hollywoodiana. Eppure, lui, che nella vita ha trovato riparo dalle turbolenze dello show-business in Francia, dove vive con la moglie italiana e i due figli, ha attraversato nell'ultimo anno, oltre a qualche festival come il Capri-Hollywood, sei diversi set: passando dall'adattamento cinematografico di 'Vergogna' di J. M. Coetzee, diretto da Steve Jacobs, alle ombre noir di Clint Eastwood in 'The Changeling', dal fantascientifico 'The Mutant Chronicles' al thriller 'Afterwards' alla magia di 'The Great Buck Howard', accanto a Tom Hanks. Fino ad approdare alla satira spionistica dei pluripremiati fratelli Coen 'Burn After Reading'.

"A Hollywood mi sono sempre sentito un po' diverso", racconta, con la voce non più alta di un sussurro, "probabilmente lo devo al fatto di aver lavorato molto con registi europei come Bertolucci, De Oliveira e Antonioni. Ma dai maestri ho imparato che il cinema è un linguaggio universale. Se un regista è bravo, sul set ci si capisce anche se non si parla la stessa lingua. Nel giro di pochi mesi, sono stato diretto da Eastwood, i Coen e Raul Ruitz: con tutti loro, bastava un gesto per intendersi. Quando la macchina partiva, non c'era bisogno di dirsi altro".


Mister Malkovich, con i fratelli Coen è tornato a un ruolo brillante dopo molto tempo. Che esperienza è stata?
"In 'Burn After Reading' ho recitato insieme a George Clooney, Brad Pitt, Frances McDormand. Quel che si dice un piccolo film con attori poco noti. Scherzi a parte, mi è piaciuto molto lavorare con i Coen perché sono intelligenti, divertenti e precisi, senza però essere maniaci della perfezione. Hanno ben chiara in testa la loro idea di cinema, sanno quello che vogliono e come ottenerlo: basta guardare l'interpretazione di Javier Bardem in 'Non è un paese per vecchi', davvero una performance da Oscar. Io in 'Burn After Reading' ho un ruolo da cattivo, ma è un cattivo light, qualcosa di molto più divertente dei miei soliti ruoli drammatici. Ho ritrovato il piacere di fare commedia: non so perché, ma mi fanno interpretare personaggi brillanti solo a teatro, al cinema non mi offrono quasi mai questo genere di parti".


Per il film di Eastwood, infatti, è tornato a un registro drammatico.
"'The Changeling' è una storia vera, ispirata a un fatto di cronaca. È ambientata a Los Angeles nel 1928 e racconta di una madre, interpretata da Angelina Jolie, il cui figlio è stato rapito. Quando il bambino le viene riportato dalla polizia, lei comincia a dubitare che non si tratti del suo vero figlio, e questo dubbio finisce per portarla in manicomio. Il mio ruolo è quello di un reverendo che la aiuterà nelle ricerche del bambino. Un'esperienza bellissima, anche perché lavorare con Clint è veramente rilassante. Gli puoi dire qualsiasi cosa, dare qualsiasi suggerimento, lui ti lascia completamente libero. Non è uno che sul set tenta di controllare tutto".


Preferisce i registi che le lasciano grande autonomia?
"Non mi preoccupo molto dei registi quando il film è scritto in maniera precisa. Certo, sul set è importante avere la libertà di scoprire direzioni nuove, quando il regista pretende di controllare ogni frazione di secondo dell'azione il lavoro è piuttosto faticoso: hai la sensazione di essere mosso con dei fili, come una marionetta. La verità è che, il più delle volte, il regista pensa di avere già il film finito nella sua testa e, quando sei un attore professionista, devi fare i conti anche con questo. Una rilevante percentuale di registi è ossessionata dall'idea del controllo".


E lei che tipo di regista è?
"Mi piacciono gli attori, mi piace osservarli, lasciarli fare, capire che strada vogliono prendere. Ma l'attenzione deve essere sulla storia, non sugli attori né sulle smanie di protagonismo di chi dirige: tutto quello che non è a servizio del racconto deve passare in secondo piano. Questa è la lezione che spero di aver imparato dai grandi maestri con cui ho lavorato".


Ha in cantiere nuove regie?
"Sto sviluppando un progetto che si chiama 'La storia della mia calvizie', da un libro di Arnon Grunberg, che ha firmato Marek Van der Jagt, suo alter ego, un bravo scrittore olandese (in Italia uscito da Instar). Si tratta di un finto 'memoire' scritto in prima persona da uno studente di filosofia, alle prese con una famiglia disfunzionale. E poi continuo a fare regie teatrali con la mia compagnia, la Steppenwolf Theatre, e a lavorare con la mia casa di produzione".


'Juno' di Jason Reitman, prodotto dalla sua Smith-Malkovich Productions, ha vinto l'Oscar per la migliore sceneggiatura. Con che criteri sceglie i film da produrre?
"Ogni film è un caso a sé, negli ultimi anni abbiamo prodotto progetti diversissimi: 'Il gioco di Ripley', 'The Libertine'. A volte investi tanto in cose che non hanno riscontro, mentre altre volte capitano piccoli miracoli come 'Juno', un film nato e costruito con poco, ma che ha conquistato il grande pubblico. Il merito, comunque, è anche di Ellen Page, la giovane protagonista. Un'attrice interessantissima, con un talento istintivo e le idee molto chiare: è profonda ma ha una leggerezza ironica".


È appena tornato dal Sudafrica, dove ha girato l'adattamento di 'Vergogna' del Nobel per la letteratura J. M. Coetzee. Che idea si è fatto degli equilibri post-apartheid?
"Il Sudafrica ha una lunghissima storia alle spalle e il mio punto di vista è troppo superficiale per poter trarre delle conclusioni. Credo che sia una terra attraversata da profondi contrasti, ma ho avuto anche la sensazione che sia un Paese amatissimo dai suoi abitanti, bianchi e neri, uniti da una forte identità sudafricana. Il che mi rende piuttosto ottimista riguardo al futuro".

Un ottimismo che è in forte contrasto col punto di vista dell'autore del libro. Coetzee ha uno sguardo molto amaro sul suo Paese.
"Credo che questo sia naturale, lui conosce la situazione molto meglio di me e chi appartiene a un luogo tende sempre a essere più pessimista riguardo alla realtà che ha intorno. I problemi del Sudafrica non si sono sicuramente risolti con la fine dell'apartheid, ma, da osservatore esterno, non posso far altro che avere uno sguardo più positivo di quanto non lo avessi vent'anni fa, quando vigeva la segregazione razziale".


Lei ha l'aria di essere una persona estremamente riservata. Come ha reagito quando le hanno proposto di fare un film intitolato 'Essere John Malkovich'?
"Nel 1992, mentre stavo lavorando a Los Angeles, a un certo punto ho finito i libri da leggere. Chiamai Russel Smith, il mio socio nella casa di produzione, chiedendogli se avesse qualcosa da prestarmi, e lui mi rispose in modo piuttosto misterioso: ho qualcosa che devi leggere. Così mi diede lo script di 'Essere John Malkovich'. Io l'ho letto e l'ho trovato fantastico. Ho incontrato l'autore, Charlie Kaufman, e gli ho detto che avrei prodotto il film, e che lo avrei anche diretto, purché si parlasse di qualcun altro. Ma Kaufmann non ne volle sapere. Cinque anni dopo, ho ricevuto una telefonata di Francis Ford Coppola, che mi chiedeva di incontrare un giovane regista, Spike Jonze. L'ho incontrato e lui mi ha riparlato di 'Essere John Malkovich'. Avevano fatto moltissimi tagli alla sceneggiatura e il risultato finale era ancora meglio di prima, così ho deciso di accettare. Per la verità, credevo che essere nel titolo di un film ti cambiasse la vita, e invece, tutto sommato, non me ne sono neanche accorto".