Il documentario di Pollack sul maestro dimostra come architettura e cinema parlino lo stesso linguaggio. Tra movimento e mutamento

È nelle sale il documentario di Sydney Pollack sull'opera di Frank O. Gehry: non una fiction, ma più dimessamente un'illustrazione dell'architettura di questo genio del nostro tempo. Dice lui nelle prime sequenze, riprese nella sua casa, che ha scelto Pollack perché nulla sa di architettura. Il regista lo asseconda e lo fa parlare liberamente, lo segue nel lavoro compositivo dinanzi a una maquette con i collaboratori: è un taglia e incolla, con cartoncini piegati, scotch e forbici.

Gehry ha un volto intenso, intelligente e parla con umiltà dei suoi esordi in California, dove ha fatto per anni il camionista e altri umili mestieri, poi si iscrisse a una scuola di architettura e fu maltrattato da qualche docente. Gli artisti dell'action painting e pop erano suoi amici, Edward Ruscha fornisce la sua testimonianza. In difficoltà, va da uno psicoanalista, cambia moglie e decide di fare a suo modo l'architetto, costi quel che costi. Lo psicoanalista è un vecchio pieno d'ironia e ripete più volte che da lui sono andati altri architetti, ma non era in suo potere farli divenire dei maestri dell'architettura. Perché Gehry è un genio del XXI secolo, senza uguali e senza paragoni. L'ho considerato tale la prima volta che entrai nella sua casa a Santa Monica agli inizi degli anni Ottanta e rimasi alla lettera stupefatto. Gehry allora non aveva realizzato nessuna delle architetture che lo hanno reso celebre.

Nella sua casa, Gehry lancia una vera e propria sfida all'ordine costituito dell'architettura, tenta una sua via, inedita e apprensiva, nel senso che ogni sua parte è parte di un qualcosa che è fuori: immette con violenza e apparente disordine la città e la campagna che circonda la casa. Compiendo questa operazione sfrutta tutte le sue doti di funambolico manipolatore di materiali. Gehry li utilizza come se li prendesse a caso da una discarica dove sono accatastati legno, alluminio, vetro, pietre. Poi, nel film di Pollack, visitiamo il Guggheneim di Bilbao, il Walt Disney Center e altre sue opere: la macchina da presa ci fa capire che ogni foto è un tradimento e solo il fluire delle immagini rende giustizia a un'architettura che nasce da una logica compositiva rivoluzionaria che nulla ha più a che vedere con Lloyd Wright o Le Corbusier.

L'unico architetto che Gehry cita è Alvar Aalto e Pollack ci mostra i dormitori del Mit e il padiglione finlandese a l'Expo di New York del '39. La morfologia compositiva di Gehry nasce infatti da una logica che ha lasciato alle sue spalle il processo di addizione e l'incastro per volumi che è tipica della tradizione del moderno. Il grande atrio del museo di Bilbao, dove si giunge dopo essere passati per il foyer d'ingresso, è il nocciolo da cui parte l'intera composizione: forma in continuo divenire che si allunga, si espande, si dilata in larghezza e in lunghezza, esplode in altezza quasi che la materia con cui è costruito l'edifico avesse l'elastica qualità d'espandersi. La pelle d'alluminio che riveste i volumi cambia colore di continuo come una salamandra. La tensione tra le parti è tale che si ha la sensazione che d'improvviso le diverse membra di questo animale possano tornare al nocciolo da cui sono state generate. L'atrio è il baricentro e il seme dell'intera composizione: lo si capisce dai suoi disegni bellissimi, trama eloquente per accostarsi alla sua grammatica formale. Gehry disegna dei diagrammi che sono un indistinto misto di forme e funzioni.

Il fatto è che solo il cinema può renderci lo straordinario spettacolo offerto dall'architettura di Gehry, e Pollack, da bravo regista, è capace di metterlo in scena: con un commento musicale discreto, come sobrio è il dialogo tra i due. Il cinema nasce infatti come rappresentazione del movimento, 'kinema' significa in greco, allo stesso tempo moto ed emozione. Infatti quando si entra in un cinema siamo immersi in uno spazio inventato che ci avvolge appena le immagini scorrono sullo schermo. Diveniamo così parte di un viaggio volto al passato, al presente o al futuro.

È stato così dai tempi dei fratelli Lumière e così è ancora oggi. L'architettura la si può intendere assai meglio col cinema che con la fotografia, per il semplice ma fondamentale motivo che uno spazio per essere conosciuto deve essere attraversato nelle sue tre dimensioni, e il cinema ci consente, col suo occhio mobile, di visitarlo in ogni sua piega. Questo è tanto più vero quando, agli esordi del Novecento, irruppe nell'architettura la quarta dimensione costituita dal percorso di chi la visita: quando si passa cioè da una dimensione prospettica e statica dell'architettura - ben resa dalla fotografia - a una più complessa che implica la necessità di percorre in ogni direzioni lo spazio. Per leggere la cupola di San Pietro basta una foto, ma se voglio capire la trama architettonica del Guggenheim di Lloyd Wright ho bisogno di un occhio mobile che mi fa percepire quella formidabile spirale. Non a caso il museo è divenuta scena di molti film da 'Manhattan' (Woody Allen) a 'She Devil' (Susan Seidelman): lo stesso Lloyd Wright dava grande importanza al cinema e costruì una sala a Taliesin come complemento didattico. In 'La fonte meravigliosa' (King Vidor) Roark, architetto ambizioso e nicciano, è ricalcato sulla figura di Wright.

Lo spazio cinematografico ha l'attitudine di creare un flusso continuo, costituito non solo dallo scorrere dei fotogrammi ma dalle inquadrature, dai movimenti di macchina, dall'uso di obiettivi sempre più sofisticati: per cui lo spazio si dilata o si restringe, punta su di un volto o su di un albero e in tal senso ci fa vivere un'emozione. Giuliana Bruno nell'erudito 'Atlante delle emozioni. In viaggio tra arte, architettura e cinema' (Bruno Mondadori) dice che il cinema ha una sua natura tattile ed essa implica non solo toccare le cose, ma ce ne dà la misura e la profondità, lo spessore e la qualità dei materiali di cui è costituita un'architettura. Aggiungo io: spesso lo scorrere delle immagini ci dona il profumo di un campo fiorito di asfodeli in 'Barry Lyndon' (Stanley Kubrick) o l'afrore di una squallida periferia urbana in 'Blad Runner' ( Ridley Scott).

È la magia del cinema che sollecita ogni senso, compreso l'olfatto, il tatto e - ovviamente - l'udito con la colonna sonora. Lo spettatore non è solo un voyeur ma un piccolo Ulisse nel momento in cui, seduto in poltrona, compie un viaggio nella storia che il regista racconta e, al contempo, un viaggio nella sua personale esperienza. Perché le immagini sullo schermo sollecitano associazioni visive, letterarie, personali che ciascuno possiede come patrimonio di cultura.