I nuovi dati economico finanziari del 2022 – che l’Espresso è in grado di anticipare incrociando diversi studi – dipingono uno scenario più che preoccupante per il pallone italiano. Le paure del governo. Le toppe della Figc. Le strategie di Lotito

Questa è la nuova cifra che racchiude e rinchiude il pallone tricolore: 5,6 miliardi di euro. Va imparata a memoria. Ripetuta con tono mite. Una litania collettiva. Ancora, e ancora, e ancora: 5,6 miliardi di euro è il debito consolidato, emerso, dei campionati professionistici in Italia. È l’ennesimo (e nefasto) primato di una cosiddetta industria - quanto piace ai patron la parola “industria”! - che anno dopo anno si ammacca, si depaupera, si restringe. Con analisi internazionali, ricerche di archivio e il confronto con la Figc, che sta per diffondere il suo tradizionale studio, L’Espresso è in grado di anticipare l’ultima, e al solito impietosa, diagnosi economico finanziaria del calcio “made in Italy”.

 

Pure i neofiti lo sanno: il debito non è un parametro oggettivo. Spaventa, se corre troppo. Terrorizza, se i ricavi non reggono il passo. Bene, spaventatevi e terrorizzatevi in abbondanza. Nel ’22 i tifosi sono rientrati in massa allo stadio dopo la pandemia - due anni di chiusure totali e parziali fino al marzo ’22 - e perciò le entrate ne hanno beneficiato con 254 milioni di euro (addirittura +226 milioni rispetto alla stagione precedente), però il debito, e qui il parametro si fa più oggettivo, è cresciuto comunque di 239 milioni pari al 4,4 per cento. La pandemia ha acuito la recessione nel pallone, non l’ha provocata. Ha abbattuto gli introiti, non i costi in eccesso. Anzi. Diverse società hanno tentato un folle recupero spingendo il tasto spese con pavlovismo masochista.

 

Nel 19/20 i costi della Serie A non hanno subito oscillazioni di rilievo, ma nella stagione 20/21 sono balzati da 3,55 miliardi di euro a 4,12 con il valore della produzione in lieve rialzo da 2,92 miliardi a 3,12. Che botta. Non giustificabile con gli stadi. La serrata dei botteghini per la pandemia ha bruciato, secondo una stima molto attendibile, 548 milioni di euro in Italia, ma 692 in Spagna, 821 in Germania, 960 in Inghilterra. I danni hanno colpito ovunque, trasversali, la ripresa no. Ha scavato le differenze. In tre stagioni sono sfumati circa 3,6 miliardi di euro. Brutta epoca. Con parecchie variabili. Alla gara delle perdite, se consideriamo il decennio antecedente alla pandemia, sul podio troviamo due volte l’Inter e una volta il Milan con -156 milioni nel 18/19. Invece con la pandemia c’è la rimonta nerazzurra con -245 milioni nel 20/21 e il prorompente ingresso della Juventus con -226 milioni nel 20/21 e -239 nel 21/22, segue la Roma con -219 nel 21/22.

 

Il commento può essere sprezzante: impossibile chiudere bilanci in attivo. Tutt’altro, per altre dimensioni. Ci è riuscita l’Atalanta nel vortice della pandemia con un utile netto di 72 milioni nel 20/21 e la Fiorentina con 47 nel 21/22. Il segreto è nessun segreto: fare mercato, ottenere risultati, rifare mercato. Sempre con equilibrio per puntellare la famosa “industria”.

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In questo contesto di «profonda trasformazione», s’è detto, eccome se non s’è detto, valgono la direzione (dove si vuole andare) e le regole (come si vuole andare). La Figc di Gabriele Gravina ha provato a fissare regole per affrontare la «profonda trasformazione» e non smarrire la direzione. Nella primavera del ’22, proprio per rimettersi in cammino con una distanza già allarmante dai tornei rivali, il Consiglio Federale ha approvato un pacchetto di norme per subordinare l’iscrizione ai campionati al rispetto di un indice di liquidità, dunque a una capacità di gestione nel medio e lungo periodo: evitare sorprese, implosioni, sperequazioni. Come osservano quelli bravi: rassicurare gli investitori esteri. Però la Lega ha impugnato il provvedimento. Allora la Figc ha utilizzato l’indice per la compravendita dei calciatori che viene bloccata se il rapporto tra ricavi e costo del lavoro supera 0,70.

 

Questa primavera il Consiglio Federale è intervenuto per far incastrare le leggi statali con quelle sportive e impedire che le ristrutturazioni dei debiti (vedi il caso Reggina) creino immotivati vantaggi. Nel mezzo ha spadroneggiato Claudio Lotito che, con la sua doppia veste di proprietario della Lazio e di influente senatore forzista del Molise, ha escogitato, e ne rivendica il successo con fierezza, il comma per spalmare in 60 rate e in 5 anni oltre 800 milioni di euro di tasse scadute del calcio. Come possano conciliarsi le strategie federali con i rammendi di Lotito è un mistero avvolto in un enigma. Semplice: non si conciliano.

 

Se alla pozione appena descritta - piena di contraddizioni e non meno di veleni - si aggiungono le stramberie della giustizia sportiva, si arriva agli effetti allucinogeni di questi giorni. Con la Reggina che è fuori e dentro al campionato di Serie B, con il Lecco che di mattina è in Serie B e di pomeriggio è in Terza Categoria, con il Perugia, il Siena, il Foggia eccetera eccetera. E una costante: il Collegio di Garanzia del Coni che ribalta le decisioni Federali oppure - è l’esperienza del processo Juventus - dilata i calendari e incentiva la confusione.

 

Che la giustizia sportiva sia da riformare è argomento condiviso: per la Figc di Gravina, per il ministero dello Sport di Andrea Abodi, per il ministero del Tesoro di Giancarlo Giorgetti. E lo stesso Giorgetti è stufo di un calcio insofferente alle scadenze nei pagamenti e, soprattutto, è preoccupato per un debito, in gran parte tributario e fiscale (ogni anno il calcio deve circa 1,4 miliardi di euro), che non smette di gonfiarsi. Un debito che, ristrutturato o spalmato che sia, presto o tardi, più presto che tardi, si potrebbe abbattere sui conti pubblici. Il ministro vuole coinvolgere in varie iniziative la Guardia di Finanza ed esige maggiore fermezza dalle autorità sportive. Comprensibile. C’è bisogno anche di leggi specifiche. Non di leggi Lotito, però. Il calcio e lo sport italiano hanno bisogno di spazio. Il giro di affari di pubblicità in attività sportive e collaterali è di 1,58 miliardi di euro in Italia (di cui 710 nel pallone) contro i 4,81 miliardi in Gran Bretagna e i 5,67 in Germania. A Roma siamo ai livelli del 2017 e si avanza di un paio di punti percentuali. Nel Regno Unito di oltre dieci. La Serie A ha firmato 675 accordi pubblicitari che per un modesto 19 per cento hanno riguardato aziende straniere, percentuale che per la Serie B si riduce al 3.

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I diritti radiotelevisivi sono ormai l’unica salvezza o miraggio di salvezza, certamente fonte sicura di reddito. Nel 20/21 i proventi televisivi domestici e di gare Uefa hanno raggiunto 1,7 miliardi per un ampio ventaglio di circostanze che, inesorabilmente, sono mancate nel 21/22 quando si è atterrati a 1,2 miliardi. Un prodotto appetibile per gli spettatori globali della Serie A, che dovrebbero essere mezzo miliardo con addirittura la metà in Asia, è un prodotto spettacolare, ovvio, e anche un prodotto serio, lineare, rigoroso. Un po’ di ironia.

 

Per consolarsi. In Italia aumentano soltanto le scommesse sul calcio. Nel ’22 la raccolta è stata di 13,2 miliardi con un gettito fiscale di 342 milioni. Nel mondo la Serie A attrae 36,6 miliardi di euro, non lontano dai 38,4 miliardi della Liga spagnola, quasi triplicata dalla Premier inglese con 80 miliardi. In futuro, si teme, ogni cosa andrà peggio, molto peggio. Chi vuole scommetterci?