Per il dopo Schlein ci vorrebbe una figura che coniugasse tradizione e innovazione, diritti e lavoro, sanità e scuola. E se fosse Massimo Cacciari?

Dove andrà il Pd è un tema di grande interesse. Lo dimostra il fatto che, solo in questo numero de L’Espresso, a occuparsi della materia sono in tre: Goffredo Bettini che del Pd fa parte da sempre; Carlo Cottarelli che è appena uscito dal gruppo del Senato; Ray Banhoff, irriverente commentatore, che invece nel Pd non c’è mai entrato.

Il problema non è tanto se il Pd debba andare più a destra o più a sinistra, ma che abbia perso il contatto con i suoi iscritti ed elettori e sia diventato il partito delle istituzioni, per cui le poltrone vengono prima del consenso. Volendo provare a ripercorrere la storia della sinistra italiana, il declino è iniziato quasi quarant’anni fa, dopo la morte di Enrico Berlinguer. Troppo grande lui o troppo piccoli i suoi successori? Bella domanda.

Di certo il dopo-Berlinguer ha portato a una profonda modifica del Partito comunista. Con lui le masse avevano un leader in cui si riconoscevano, nelle Federazioni si discuteva, il centralismo democratico portava a conclusioni, magari difficili da accettare, ma sempre portate avanti con diligenza.

Dopo Berlinguer il Pci ha cominciato a istituzionalizzarsi e la base ad allontanarsi dai dirigenti. La rappresentazione plastica di questo distacco si è avuta nella notte della Bolognina quando l’allora segretario Achille Occhetto annunciò la trasformazione del Partito comunista in partito socialdemocratico: una scelta coraggiosa, necessaria, lungimirante ma non discussa con gli organi dirigenti e soprattutto con la base. A distruggere la rete organizzativa di quello che restava del Pci ci ha poi pensato Walter Veltroni con la sua idea di partito liquido. Pierluigi Bersani, forse il segretario più empatico con la base, tirerà fuori il concetto del Partito-ditta pensando di poterlo gestire come se l’Italia fosse una grande Emilia-Romagna. Altro fallimento.

Matteo Renzi proverà a dare una sterzata verso il modello del Labour inglese, sull’onda di Tony Blair, e con qualche furbata come gli 80 euro sembrava poter cavalcare il successo. Poi però lui e i suoi costituzionalisti del contado fiorentino verranno schiacciati dal referendum popolare sulla sua riforma (che tanto piaceva al presidente Giorgio Napolitano) per una sola Camera di eletti e, a seguire, una legge elettorale modello sindaco d’Italia. Dopo, poco o niente fino al disastroso Enrico Letta.

E adesso? Sinceramente, dopo tutte queste temperie, il popolo della sinistra è spaesato. Ha votato Schlein perché la riteneva una novità ma forse non aveva capito nemmeno chi fosse: troppo breve il suo percorso dentro il partito. Ora, la povera Elly ha tutta l’aria del gatto in autostrada: quanto durerà? Di certo almeno fino alle Europee, ma è difficile che riesca a fare un’ottima performance, viste le divisioni interne. Poi si vedrà.

C’è chi pensa al dopo: Schlein sorretta da un direttorio con i capi delle principali correnti? Mah. Un nuovo segretario? Boh. In questo caso ci vorrebbe una figura che riuscisse a incarnare tradizione e innovazione, diritti e lavoro, sanità, scuola. Uno che sia ortodosso ed eretico. Che abbia il fascino dell’intellettuale e la consistenza dell’amministratore, che parli a laici e cattolici. Forse è troppo tardi, forse è troppo fuori dal coro, forse è troppo lontano da Roma e dal potere che tanto piace al Pd attuale. Ma un nome ci sarebbe: quello di Massimo Cacciari. Potrebbe essere il leader della sinistra in grado di non riempire il futuro solo di nostalgia o di illusioni.