In Italia il margine operativo delle aziende nell’ultimo anno è cresciuto dello 0,8 per cento, mentre gli stipendi sono calati del 2,1 per cento. E negli ultimi 30 anni sono rimasti bloccati

C’è un ponte che unisce il 25 Aprile con il Primo Maggio. Non è il ponte delle vacanze anche se la vicinanza delle date induce a pensarlo. È un ponte ideale retto da due architravi: la Liberazione ottenuta dalla Resistenza e il diritto al lavoro conquistato con decenni di lotte dei lavoratori. Senza il 25 Aprile probabilmente oggi non potremmo festeggiare il Primo Maggio. La prima ricorrenza è stata già celebrata ed è stata bella, di popolo, partecipata, sentita come per fortuna accade ancora ogni anno, anche se questa volta c’era qualche motivo in più per sentirsi addosso l’orgoglio dei liberatori. Anche la festa del Primo Maggio, siamo sicuri, sarà bella, partecipata, sentita. Molti diritti sindacali sono stati conquistati grazie ai lavoratori che, come i partigiani, hanno lottato per sé stessi ma anche per i propri figli, per il futuro del Paese perché fosse moderno, inclusivo, giusto. Però tante cose negli ultimi anni sono cambiate. Il lavoro è diventato più precario, i salari non aumentano, anzi, la vita di tutti i giorni si è fatta più dura.

 

Secondo i dati Ocse 2022, tra il 1991 e il 2021 il livello medio degli stipendi in Italia è cresciuto di appena lo 0,36 per cento, mentre nello stesso periodo in Germania e in Francia l’aumento è stato superiore al 30 per cento. Nel 2022, dice la Confederazione dei sindacati europei, in Italia il margine operativo lordo reale delle aziende è cresciuto dello 0,8 per cento, mentre gli stipendi sono andati nella direzione opposta, diminuendo del 2,1 per cento.

 

Stipendi bassi significano anche bassa produttività, uno dei problemi del sistema economico italiano. Il fenomeno è dovuto alla carenza di competenze richieste dalle imprese e dalla sottoutilizzazione di quelle disponibili. Basta pensare che l’Italia è l’unico Paese del G7 in cui la maggior parte dei laureati è impiegata in attività di routine e non per le competenze acquisite attraverso gli studi. E la formazione? Quanta se ne fa in Italia? Quanto si investe in questo settore? Affrontare oggi il mondo del lavoro, sempre più automatizzato e tecnologico, senza un’adeguata formazione è come andare alla guerra con un fucile a tappi.

 

Anche perché, come ha dichiarato Stefano Franchi, direttore generale di Federmeccanica, a Gloria Riva nel servizio di copertina dell’Espresso: «L’operaio d’oggi non è più manodopera, bensì “mente-d’opera”, con uno ridotto impegno fisico e un maggior compito mentale. Si chiedono competenze informatiche, digitali, tecniche. È necessario un diploma, serve una formazione costante, c’è bisogno di capacità relazionali, problem solving, competenze trasversali».

 

C’è poi il grande problema del lavoro precario e degli stipendi da fame. Tutti temi che senz’altro saranno contenuti nei discorsi alle manifestazioni del Primo Maggio, assieme a quelli del salario minimo, del welfare, dei lavori usuranti. Le conquiste del lavoro degli ultimi decenni sono state importanti ma ci sono altri traguardi altrettanto importanti per i tempi che corrono. Una volta però c’era una classe operaia unita, determinata, combattiva. Oggi c’è ancora, ma è completamente cambiata: complessa, disillusa, frantumata, ma non per questo meno combattiva. Sta al sindacato fornire gli strumenti e gli obiettivi per tornare a essere protagonista e conquistare diritti e traguardi giorno dopo giorno. Ma il sindacato attuale è in grado di farlo?