Crescono le entrate e raddoppiano i depositi bancari delle aziende italiane. A pagare la situazione sono solo i dipendenti che vedono crollare il potere d’acquisto

A livello internazionale è un’indagine condotta da Oxfam e Action Aid a rivelare come 722 tra le più importanti e grandi aziende del pianeta abbiano realizzato quasi mille miliardi di dollari di extraprofitti nel 2022. E lo stesso è successo l’anno precedente. Contemporaneamente un miliardo di lavoratori nel mondo ha subito una contrazione reale dei salari per 746 miliardi di dollari, parallelamente a un aumento dei prezzi dei generi alimentari del 14 per cento. E in Italia cos’è successo nel 2022? Mentre gli imprenditori lamentano l’assenza di politiche fiscali e criticano la stretta monetaria avviata dalla Banca Centrale Europea, che rischia di stritolare l’economia reale, tanto più che sono attesi ulteriori rialzi dei tassi, le aziende hanno chiuso i bilanci 2022 con profitti in crescita del 53,25 per cento rispetto all’anno precedente.

 

È questo ciò che il ricercatore della Fondazione Claudio Sabattini della Fiom Cgil, Matteo Gaddi, ha scoperto analizzando i dati depositati alle Camere di Commercio: «Non è ancora possibile effettuare un’analisi complessiva su tutte le imprese italiane, semplicemente perché non tutte hanno già depositato il bilancio, ma aggregando i dati già disponibili, si scopre che rispetto all'anno precedente i profitti, intesi come utili di esercizio, sono aumentati del 53,25 per cento sul 2021».

 

Si tratta di un'ulteriore conferma rispetto a quanto avvenuto nel quinquennio precedente, quando gli utili delle imprese italiane sono saliti del 77,5 per cento tra il 2017 e il 2021. Anche il valore della produzione è cresciuto del 13,7 per cento: «A un’economia praticamente stagnante, segnata tra le altre cose dal covid e dal lockdown, si contrappone un aumento degli utili aziendali di quasi l’80 per cento», scrive Gaddi nel volume realizzato a più mani “L’inflazione. Falsi miti e conflitto distributivo”, edizione Punto Rosso, che fotografa le aziende nel 2021. Si potrebbe obiettare che quegli aumenti siano il frutto del rimbalzo post lockdown e quindi da imputare all'exploit del 2021, «e invece questo fenomeno si è ulteriormente consolidato nel 2022, perché i profitti sono ulteriormente cresciuti di oltre il 50 per cento», aggiunge ora il ricercatore. Non fanno eccezione le imprese energivore, ovvero quelle che avrebbero dovuto soffrire maggiormente a causa dei rincari del costo dell'energia, che costituisce una rilevante quota dei loro costi di produzione: al contrario nel 2022 queste imprese hanno difeso i propri margini di profitto scaricando a valle sia l’aumento dei prezzi delle materie prime, sia quello dell’energia. Infatti nel settore siderurgico gli utili netti sono cresciuti dell’86,28 per cento, il risultato operativo è in crescita del 49 per cento, il margine operativo lordo segna più 35 per cento.

 

Per esempio la Duferco Travi, società di Antonio Gozzi, presidente di Federacciai, ha chiuso l’anno con utile d’esercizio a 74,3 milioni di euro, in crescita del 32 per cento sull’anno precedente, vola il risultato operativo a più 124,5 per cento, il margine operativo lordo registra quota più 121 per cento, con un’ebitda positivo a 147,7 milioni di euro. Un altro campione della metalmeccanica siderurgica, la Tenaris Dalmine della potente famiglia Rocca, registra profitti in crescita del 239 per cento a 91,4 milioni di euro, così come la bresciana Lucchini Industries: più 220 per cento gli utili d’esercizio. Nell’ambito della metalmeccanica, il 2022 è stato un anno record anche per Brembo e Piaggio, leader nei mezzi di trasporto, che registrano utili di bilancio in crescita rispettivamente del 36 e del 41 per cento. Utili a più 53 per cento per l’abbigliamento, più 20 per cento per il settore cura della persona, nel chimico la Sapio chiude il 2022 con utile netto in crescita del 420 per cento a 55 milioni di euro, mentre Prysmiam, colosso della produzione di cavi, segna mezzo miliardo di utili, in crescita del 64 per cento. Nel settore energetico Eni ha visto l’utile operativo passare da 12 a 17 miliardi di euro, l'utile netto è salito a 13,9 miliardi.

 

Come mai, a fronte dell'inflazione e prezzi all’energia alle stelle, le imprese hanno accumulato tutta questa ricchezza? Se da un lato ha giocato positivamente lo sgravio sui costi energetici voluto prima dal governo Draghi e poi da quello Meloni, dall’altro la ricercatrice dell'Università di Modena, Nadia Garbellini, con un esercizio di stima ha dimostrato come i costi energetici diretti e indiretti hanno impattato in modo molto contenuto sui costi di produzione: «Più volte si è detto che l’inflazione è stata provocata dai rincari energetici, che si propagano sulla rete inter industriale e quindi sui costi della produzione. E che proprio per questo le imprese avrebbero aumentato il costo dei listini e dei propri prodotti. In realtà, ipotizzando un rincaro del corso energetico del 500 per cento, cosa che per altro si è verificata solo sporadicamente, il settore che subisce il maggior aumento dei prezzi è la fornitura di energia elettrica e gas (più 37,2 per cento), seguita dalla metallurgia (più 20,9 per cento), dalla chimica (più 12,5 per cento) e dalla logistica (più 9,6). Tutte le altre mostrano incrementi inferiori, anche in misura molto significativa».

 

In base ai calcoli effettuati, anche se le imprese non avessero aumentato i listini avrebbero in larga parte chiuso i bilanci con un margine operativo lordo positivo. Quel denaro ha gonfiato l’ammontare dei depositi bancari, almeno nelle società non finanziarie. Dice la Banca d’Italia che nel quarto trimestre del 2017 i depositi erano pari a 274,919 miliardi di euro, e nel quarto trimestre del 2022 sono lievitati a 430,795 miliardi, ovvero sono cresciuti del 57 per cento. Insomma, le imprese hanno guadagnato parecchio dall’inflazione e nessuno, tantomeno i lavoratori, ha partecipato al banchetto.

 

Infatti, ciò che è aumentato assai poco è il salario dei dipendenti: dopo un trentennio segnato da una riduzione dei salari reali medi del tre per cento - un unicum tra i Paesi dell’Ocse - il biennio passato ha visto una caduta verticale del salari reali - pari secondo i dati Istat all’1,3 per cento nel 2021 e addirittura al 7,6 per cento nel 2022 - e il 2023 non è destinato ad andare meglio. A monte sta una generalizzata incapacità dei sindacati, italiani ma non solo, a proteggere i salari reali. Con poche eccezioni: ha fatto notizia in questi giorni l’aumento di 435 euro richiesto dai bancari nel rinnovo contrattuale, che tra l’altro è già stato accolto positivamente dall’amministratore di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina: «Con un utile netto di 7 miliardi di euro, non ho il coraggio di guardare in faccia le persone e dire che mi metto a negoziare sugli aumenti».