L’inflazione lenta a calare. Le crisi bancarie. Il contrasto con la Cina. La guerra. Le minacce all’economia globale secondo un celebre studioso

«È in corso una delicata e cruciale operazione per migliorare allo stesso tempo la “resilienza” economica e la sicurezza nazionale, operazione basata sul “de-risking” anziché il “de-coupling”». Nouriel Roubini, uno degli economisti più prestigiosi del mondo, guru della New York University, descrive così lo stretto crinale fra la guerra commerciale con la Cina e il cammino di sviluppo dell’America e dell’intero occidente. Roubini ha inserito le controversie con Pechino al primo posto fra le “Megathreats”, le minacce globali cui ha dedicato il suo ultimo libro (uscito in Italia da Feltrinelli con il titolo “La grande catastrofe”) che presenterà il 1° giugno a Torino durante il Festival internazionale dell’economia organizzato da Laterza.

 

Professore, cosa intende in questo caso con “de-coupling”?
«La rinuncia alla maglia fittissima di investimenti occidentali in Cina e la riduzione secca dell’interscambio. Uno scenario non verosimile, come ha riconosciuto lo stesso Biden al G7 di Hiroshima, che pure si è chiuso con un comunicato piuttosto duro nei confronti della Cina per le sue pratiche commerciali, l’ambiguità sulla Russia (anche se ufficialmente Pechino non vende armi a Mosca), e la coercizione economica verso Taiwan. Eppure Biden si è detto ottimista per un allentamento delle tensioni con Pechino. Il problema è che nelle stesse ore la Cina ha vietato alle sue aziende di comprare i chip dell’americana Micron, una ritorsione contro le reciproche misure degli Usa».

 

Insomma, un passo avanti e due indietro. Oltre a quest’elemento geopolitico dominante, quali sono le minacce che lei vede?
«Premetto che il libro è stato scritto appena prima dell’attacco russo all’Ucraina, che evidentemente meriterebbe un ampio capitolo. Una minaccia che già stava prefigurandosi e che è diventata sempre più attiva, è l’inflazione. È vero che sta lentamente scendendo e non ha provocato la recessione, però gli effetti dei rialzi dei tassi sull’economia reale con una rapidità mai vista prima, devono ancora sprigionarsi del tutto. L’anno della verità sarà il 2024: il pericolo di una recessione, in America come in Europa, non è scongiurato».

 

Però Powell, capo della Fed, ha detto che tirerà, almeno temporaneamente, il freno dopo dieci rialzi consecutivi.
«Sì, ma lo ha fatto in relazione ai fallimenti recenti e forse prossimi delle banche, travolte dagli effetti collaterali di questi rialzi forsennati. La Fed è di fronte al dilemma: privilegiare la lotta all’inflazione o tutelare la stabilità del sistema finanziario. In questo momento, visto anche il ribasso dell’inflazione, prevale il secondo».

 

Quali sono gli “effetti collaterali”?
«Il primo è la fuga dei depositi verso altri investimenti diventati redditizi, il che genera una crisi di fiducia nelle banche. Tanto che si pensa a misure d’emergenza come dopo la crisi del 2008 come una nuova separazione fra attività commerciali e di banca d’investimento».

 

In Europa invece a che punto siamo?
«Credo che la Bce non si fermerà e alzerà ancora di almeno un quarto di punto i tassi, oggi al 3,75%, già nella prossima riunione del 15 giugno. Però, con l’inflazione che si mantiene sul 7% nell’area euro, con punte maggiori in diversi Paesi (8,2% in Italia ad aprile, ndr), il tasso reale è ancora negativo al contrario degli Usa dove tassi e inflazione sono ormai quasi coincidenti. In ogni caso, in entrambi i continenti, ridiscendere fino al tasso obiettivo del 2% sarà ancora lunga».

 

Anche se uno dei fattori-chiave, il prezzo dell’energia, sembra sotto controllo?
«Sì, perché a questo punto è forte soprattutto il valore core, al netto dell’energia: in tutte le componenti economiche si è infiltrata l’inflazione, compreso il costo del lavoro in America. E in Europa, a giudicare dall’inasprimento delle lotte sindacali c’è il pericolo che s’inneschi una rincorsa salari-inflazione, assai insidioso perché la produttività cresce di meno in Europa che negli Stati Uniti».

 

C’è ancora un elemento di confronto fra Europa e Usa: gli aiuti agli investimenti, i famigerati interventi statali che l’Unione europea aveva vietato e ora riappaiono proprio in America. È un elemento che si aggiunge al dilemma di cui parlava prima, che diventa quindi un “trilemma”?
«Intanto l’Europa ha reintrodotto alla grande gli aiuti pubblici con il NextGenerationEu. Non mi sembra uno scandalo se l’America risponde con l’Inflation Reduction Act, perché una politica industriale corretta, in grado tra l’altro di direzionare l’economia in favore della sostenibilità, è una cosa positiva oggettivamente. Non è una questione di distinguere fra aiuti alle industrie e aiuti agli investimenti, una differenza sottile e inconsistente: si tratta di sostenere le scelte economiche corrette che aiutino entrambe le economie a non scivolare in recessione e quindi imboccare una via per uno sviluppo migliore oltre che, appunto, sostenibile. Non dimentichiamo che diverse altre minacce, di cui parlo nel mio libro, incombono sull’Occidente, come l’invecchiamento della popolazione e il suo peso economico sui giovani».

 

Ma perché l’“Inflation reduction act” si chiama così? Cosa c’entra l’inflazione con gli aiuti alle imprese?
«L’obiettivo è la crescita che è per definizione l’antidoto all’inflazione, sempre che non diventi disordinata nel qual caso diventa viceversa un “facilitatore” dell’inflazione stessa. Costruendo impianti mirati ed efficienti in patria si evita parte delle importazioni soggette alle “bottleneck”, le strozzature nelle catene di fornitura che sono, esse sì, un fattore primario di inflazione».