La Commissione prova a contrattare con big pharma delle modifiche per rendere il mercato più omogeneo e combattere la pandemia dell’antibiotico resistenza. Ma la proposta scontenta tutti

L’intento è nobile: creare un mercato unico europeo dei medicinali per garantire a tutti, dal Portogallo alla Bulgaria, un accesso equo ai farmaci. Perché oggi così non è: su 160 medicine autorizzate dall’Agenzia europea del Farmaco, nel 2022 ne erano disponibili 147 in Germania, 127 in Italia e solo 36 in Slovacchia.

 

Questo perché le case farmaceutiche preferiscono vendere nei Paesi più ricchi, come Francia, Germania e Italia, anziché in Grecia, Romania e Bulgaria, Paesi con meno risorse che, quindi, non possono offrire ai propri cittadini farmaci di ultima generazione. Ecco perché uno degli obiettivi principali contenuti nella Riforma del settore farmaceutico, presentata a fine aprile dalla Commissione europea, è convincere Big Pharma a distribuire i farmaci in modo eguale a tutti gli Stati europei. E poiché le case farmaceutiche capiscono solo la lingua del soldo, il testo della riforma sembra più un’intesa economica con le aziende che un documento politico. Un contratto che, peraltro, è dovuto scendere a compromessi.

 

Un esempio su tutti: sparisce il riferimento alle licenze obbligatorie e a qualsiasi possibilità per l’Europa di sfruttare un brevetto in caso di emergenza sanitaria. E questa non è una questione da poco, soprattutto se si considera che l’idea di riforma europea nasce dall’impreparazione del vecchio continente di fronte alla pandemia, in cui la Commissione si è ritrovata a siglare costosi accordi con Pfizer-BioNTech e Moderna, le quali hanno guadagnato 90 miliardi di euro proprio dalla pandemia. Un’indagine condotta dall’economista Massimo Florio per conto della Commissione stessa ha rivelato che a finanziare la ricerca sui vaccini sono stati i Paesi europei e gli Usa (e quindi i cittadini) con 30 miliardi di investimenti, mentre le multinazionali ne hanno messi 16. In un primo momento la Commissione aveva deciso di intervenire sulle licenze obbligatorie per dare anche all’Europa la possibilità di sospendere un brevetto a fronte di un evento catastrofico. Per inciso, si tratta di un diritto di cui godono tutti gli Stati in base all’accordo Trips del 1994 raggiunto in seno alla World Trade Organization. Tuttavia, sul tema la Commissione ha dovuto fare marcia indietro a causa delle pressioni dell’industria farmaceutica.

 

Veniamo ora alla strategia europea per convincere Big Pharma a distribuire i farmaci in tutti gli Stati membri. Per comprenderla è indispensabile introdurre la Data Exclusivity: si tratta di un periodo di otto anni, che decorre dall’immissione in commercio di un farmaco, nel quale l’azienda produttrice ha il diritto esclusivo a utilizzare e conoscere l’esito dei test clinici e preclinici condotti per arrivare a quello stesso farmaco. Proprio così: quando a un paziente viene offerta l’opportunità di partecipare a un innovativo trial clinico che, in nome della scienza, consentirà all’umanità di vivere meglio e più a lungo, lo stesso paziente deve sapere che in realtà si sta immolando sull’altare della singola casa farmaceutica e che il beneficio per la collettività sarà frenato dalla Data Exclusivity. «La Commissione ha proposto di ridurre a sei anni il vincolo di riservatezza, ma con l’opportunità di guadagnare altri due anni qualora l’azienda si impegni a diffondere il farmaco in tutti gli Stati europei in un arco di tempo ragionevole», spiega Simona Gamba, ricercatrice dell’Università Statale di Milano, che continua: «L’estensione di riservatezza può arrivare a dieci anni se il farmaco combatte le malattie rare, se vengono effettuati studi clinici comparativi (cosa che attualmente nessuna azienda è incentivata a fare, perché vuol dire mettere a confronto l’efficienza del proprio ritrovato con quella di altri medicinali già in commercio). E altre estensioni sono previste per le medicine che rispondono a una nuova indicazione terapeutica oppure offrono benefici clinici rispetto alle terapie vigenti».

 

La Federazione europea delle associazioni e delle industrie farmaceutiche ritiene che tutto ciò «rischia di sabotare l’industria europea delle scienze della vita, privando i pazienti europei di assistenza sanitaria all’avanguardia». Poi rincara la dose definendo la riforma «impraticabile e destinata a fallire». E potrebbe non avere tutti i torti, soprattutto perché il lungo iter della proposta, con passaggi al Parlamento e al Consiglio europei, ha buone probabilità di naufragare in occasione del rinnovo del Parlamento previsto nel 2024. Del resto sono pochi gli europarlamentari che hanno davvero voglia di scagliarsi contro la potente lobby delle multinazionali del farmaco.

 

L’altro motivo che ha spinto l’Europa a varare una riforma del settore è l’urgenza di fronteggiare la pandemia silenziosa della resistenza antibiotica che uccide dieci milioni di persone l’anno e che, secondo l’Oms, nel 2050 provocherà più morti del cancro. L’Italia, assieme a Grecia e Romania, è il Paese europeo con il maggior tasso di resistenza. Servono dunque nuovi antibiotici, ma le imprese ci investono pochissimo perché scarsamente remunerate dal mercato. La strategia della Commissione è offrire in cambio un’estensione della protezione – un Transferable data exclusivity voucher – per altri farmaci più interessanti. Una proposta micidiale: «Sostanzialmente le aziende produttrici di un antibiotico innovativo riceveranno dalla Commissione un voucher per estendere di un anno il periodo di monopolio su qualsiasi altro prodotto in commercio. Non solo, il voucher è cedibile ad altre società e può diventare quindi merce di scambio», spiega Gamba.

 

Medicines for Europe, ovvero l’associazione delle imprese che producono farmaci generici, quindi a costo più basso sfruttando la fine dei brevetti, fa notare che questo sistema dei voucher rischia di far lievitare in modo esponenziale il costo complessivo affrontato dai sistemi sanitari nazionali. Ad esempio, l’estensione dell’esclusività per il farmaco Abbvie’s Humira che cura l’artrite, costerà ai sistemi sanitari europei 1,1 miliardi di euro in più l’anno. La rivista scientifica Lancet ha stimato che l’immissione di ciascun voucher potrebbe pesare in media 3,2 miliardi sulle tasche dei contribuenti. Lo sconcerto da parte della società civile, incarnata da un duro comunicato della European Consumer Organization, è totale, soprattutto perché per mesi si era parlato di una nuova agenzia sanitaria europea, detta Hera, che avrebbe dovuto svolgere un ruolo centrale nell’attuazione di nuovi modelli di ricerca e sviluppo, garantendo l’avvento di nuovi farmaci antibiotici grazie alla creazione di un centro di ricerca pubblico. E si era anche ipotizzato di tassare le Big Pharma che non avessero contribuito alla ricerca di nuovi antibiotici, partendo dal presupposto che – in base allo studio “Pharma’s Pandemic Profits”, pubblicato da Somo – le aziende hanno guadagnato oltre 100 miliardi di dollari grazie al Covid e che quei guadagni sono in gran parte dovuti a decenni di ricerca finanziata da investimenti pubblici e da sovvenzioni statali per lo sviluppo e la produzione.