La riforma proposta è un gioco tra bastone e carota con big pharma. Ma il meccanismo di incentivo attuale negli Stati Uniti funziona, in Europa no

Il pacchetto legislativo proposto dalla Commissione Europea il 26 Aprile scorso è stato accolto dalle associazioni di settore europee e statunitensi con commenti allarmistici se non addirittura terroristici: «La legislazione UE sui farmaci rischia di sabotare l’industria Europea delle scienze della vita allontanando ancora di più i pazienti Europei dalla frontiera delle cure», scrive l’Epfia. Addirittura!

 

Da dove partiamo? L’industria europea (inclusa UK, Svizzera, Norvegia) nel 2021 ha prodotto farmaci e ingredienti per 300 miliardi di euro, ne ha importati per 390, ne ha esportati per 565, quindi ha basato i suoi risultati su acquisti e rivendita di ingredienti importati in misura superiore alla produzione. Di per sé potrebbe non essere un problema, salvo quando le filiere di approvvigionamento si scoprono fragili. Ma il punto cruciale non è questa dipendenza da paesi terzi, sia come input che come sbocco. È invece che la ricerca e sviluppo dell’industria europea non è altrettanto competitiva di quella Usa e cinese. Nonostante in Europa, secondo Epfia, ci siano 125mila addetti alla R&S (il 15 per cento del totale) la stessa associazione stima che negli ultimi cinque anni negli Usa sono state scoperti 159 principi attivi, in Europa meno della metà: 72, e solo uno in più che in Cina.

 

La distanza fra Europa e Usa cresce da venti anni. Come si vede, il meccanismo di incentivo attuale basato su un’industria protetta in nome dell’innovazione non funziona ovunque allo stesso modo.

 

Aggrapparsi quindi come argomento polemico alla strenua difesa dei meccanismi di monopolio legale offerti da pluriennali esclusive di mercato, meccanismi scalfiti ma non radicalmente negati dalle proposte della Commissione Europa, si può forse capire come mossa negoziale. L’Europa, peraltro, si guarda bene da toccare la legislazione sui brevetti e concede all’industria nuove protezioni legali con i ‘voucher’ per nuovi antibiotici, oltre a velocizzare alcune procedure di approvazione, anche se tenta di spingere per maggiore uniformità di mercato, non è chiaro se in modo efficace.

 

La verità è che né l’Europa, né l’industria, hanno il coraggio di affrontare il nodo strutturale del rapporto fra pubblico e privato. Negli Usa il governo tramite i National Institutes of Health immettono annualmente nel sistema dell’innovazione biomedica 43 miliardi fondi pubblici, cui se aggiungono altri con altre istituzioni che si riferiscono al Ministero della Salute. In Cina il governo è un attore di primo piano anche con imprese che controlla direttamente. In Europa e nei singoli stati non c’è nessuna politica di vero sostegno alla ricerca, se non briciole e chiacchiere. Programmi come Horizon Europe (Ce, Dg Ricerca) ed Hera (Dg Salute) hanno bilanci e regole di funzionamento inadeguati, sussidi e contratti sparsi per mille rivoli che non fanno massa critica. Lo si è visto con i vaccini Covid 19, su cui abbiamo presentato recentemente uno studio per il parlamento Europeo con le colleghe Chiara Pancotti e Simona Gamba. La CE e i governi anno firmato assegni per acquisti di dosi per oltre cento miliardi di euro, ma a differenza degli Usa non hanno nessuna strategia a medio-lungo termine.

 

Il pacchetto legislativo attuale essenzialmente è un gioco di bastone - carota con l’industria. Non mette in campo un’agenda europea che cambi il panorama, con soldi e soggetti dotati di autonomia scientifica e manageriale nell’interesse pubblico. La proposta di una infrastruttura pubblica europea del farmaco (“Biomed Europa”) che abbiamo avanzato al Parlamento Europeo, di cui il Forum Disuguaglianze e Diversità è portatore da tempo, servirebbe a questo cambiamento di paradigma: 150 miliardi in 20 anni, un bilancio simile a quello dell’Agenzia Spaziale Europea per realizzare 100 nuovi farmaci e vaccini ad alta priorità. Se solo ci fosse una classe politica disposta a discutere sul serio di strategia industriale e della salute.

 

* Massimo Florio è Professore ordinario di Scienza delle finanze all’Università di Milano e Membro del Forum Diseguaglianze e Diversità e la sua proposta è una delle cinque contenute nel Manifesto “Liberare la conoscenza per ridurre le disuguaglianze” del Forum Disuguaglianze e Diversità. Il Manifesto è stato presentato da Fabrizio Barca sul numero 16 de L’Espresso del 23 aprile 2023.