La clamorosa bocciatura dello scostamento di bilancio in Parlamento mostra tutti i limiti della misura: le riforme dell’Irpef e della previdenza costano troppo, i fondi per il taglio del cuneo fiscale si esauriscono quest’anno. Ed è stato rimandato anche l’aumento degli investimenti nella sanità. Perché il debito pubblico rischia di andare fuori controllo

In Germania funziona così: dopo mesi di trattative e una raffica di scioperi che hanno paralizzato per giorni il Paese, nella notte di sabato 22 aprile il governo di Berlino ha siglato un’intesa con i sindacati che porterà 3 mila euro netti nelle tasche di 2,5 milioni di dipendenti pubblici. A marzo dell’anno prossimo scatterà un altro aumento di 340 euro mensili. L’accordo serve a recuperare almeno in parte la perdita del potere d’acquisto dei salari causata da un’inflazione che nel 2022 ha sfiorato in media l’8 per cento e resta ancora superiore al 7 per cento.

 

Anche in Italia più di 3 milioni di lavoratori a libro paga dello Stato e degli Enti Locali, dai ministeri alla Sanità all’Istruzione, hanno visto calare il valore reale dei loro stipendi per effetto di un boom dei prezzi di poco superiore a quello tedesco. Roma, però, non si muove. I soldi non ci sono. E il Documento di Economia e Finanza (Def) appena presentato dal governo non spiega come sarà possibile adeguare le retribuzioni dei dipendenti pubblici al costo della vita. La legge di bilancio per il 2023 prevede un aumento una tantum dell’1,5 per cento che si esaurisce quest’anno. E il rinnovo dei contratti scaduti a fine 2021, quelli su cui pesa per intero la crescita dell’inflazione? Se ne discuterà più avanti, forse, ma quando di preciso non si sa, mentre la crisi è tutt’altro che risolta. Tanto che la Corte dei Conti, nella sua relazione sul Def, segnala «il rischio di una sottovalutazione delle possibili tensioni rivendicative» legate al mancato adeguamento delle retribuzioni. In altre parole, l’inerzia dell’esecutivo potrebbe presto innescare un’ondata di scioperi nei servizi pubblici.

 

Anche il taglio del cuneo fiscale, che secondo Giorgia Meloni «testimonia l’attenzione del governo alla tutela del potere d’acquisto dei lavoratori», si risolverà in una mancia di poche decine di euro al mese per i redditi inferiori ai 35 mila euro l’anno. Poca cosa rispetto alla decurtazione degli stipendi prodotta dall’inflazione, senza contare che gli effetti concreti sulle buste paga sono destinati a esaurirsi entro dicembre. Il provvedimento costa circa 3,5 miliardi di euro e per estenderlo anche al prossimo anno ne servirebbero almeno altrettanti. Dove trovarli? Nei conti dello Stato per il momento mancano le coperture per finanziare un intervento analogo anche nel 2024.

 

È una storia che si ripete. Il Def firmato dal ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, certifica che la coperta dei fondi pubblici è sempre più corta. E la clamorosa bocciatura in Parlamento di giovedì 27 aprile certifica che anche nelle fila della maggioranza di governo sono in molti a nutrire dubbi sulle misure varate dall’esecutivo. Delle misure a difesa di salari e stipendi abbiamo detto. Poi c’è la previdenza. E la sanità. Per mantenere invariate qualità e quantità delle prestazioni «sembrerebbero necessarie cospicue risorse che appaiono difficili da reperire», ha spiegato la presidente dell'Ufficio Parlamentare di Bilancio (Upb), Lilia Cavallari nella sua audizione in Parlamento. Com’era prevedibile, l’evidenza dei numeri ha finito per sbriciolare le promesse della campagna elettorale.

 

«Meno tasse per tutti», era il tormentone dei partiti di centrodestra, ma le misure varate in questi mesi hanno favorito solo i lavoratori autonomi, allargando, tra l’altro, le maglie dei controlli antievasione. Il taglio dell’Irpef con la riduzione delle aliquote da quattro a tre è stato inserito in un disegno di legge delega che dovrà essere approvato dal parlamento entro i prossimi due anni. Sempre ammesso che strada facendo il governo non si accorga che i costi della riforma dell’imposta sui redditi sono insostenibili per le finanze pubbliche.

 

Nel frattempo, fioccano proposte estemporanee come quella del ministro Giorgetti, che per combattere il crollo delle nascite (forse la minaccia più grave per la stabilità dei conti pubblici nel lungo termine) vorrebbe ridurre, fino ad azzerarlo, il numero delle tasse da pagare per le famiglie con almeno due figli. Parole vaghe, quel tanto che basta per farle galleggiare nel mare magnum del chiacchiericcio politico senza un numero che ne certifichi la fattibilità. Stando alle ipotesi circolate nei giorni scorsi, il costo degli sgravi sarebbe nell’ordine delle decine di miliardi l’anno. Forse, ma non è detto, le culle si riempirebbero, ma di sicuro lo Stato prenderebbe la rincorsa verso la bancarotta. «Vedremo se in autunno riusciremo a trovare altre risorse da mettere al servizio soprattutto di interventi di riforma fiscale, tra cui anche la natalità», ha prudentemente chiosato Maurizio Leo, viceministro dell’economia con delega al Fisco.

 

Al momento sono gli anziani, più che i neonati, a minacciare la tenuta del governo. La riforma, o meglio la cancellazione della legge Fornero, è da anni il cavallo di battaglia della propaganda dei partiti del centrodestra. Quota 41 per tutti, cioè il diritto alla pensione di anzianità per i lavoratori con 41 anni di contributi, era al primo posto nel programma elettorale della Lega È ormai evidente, però, che la promessa leghista resterà tale. I conti pubblici faticano ancora a riassorbire gli effetti di «Quota 100» (almeno 62 anni di età con 38 anni di contributi per accedere alla pensione di anzianità) introdotta nel 2019 dall’esecutivo gialloverde. Ma costa cara anche Quota 103, in vigore fino a dicembre. In totale, ha calcolato la Corte dei conti, le deroghe alle regole per il pensionamento anticipato (compresa Opzione donna) hanno assorbito «9 miliardi nel 2022 e altrettanti quest’anno».

 

Nel suo complesso, la spesa previdenziale è destinata ad aumentare nel biennio 2023-24 anche per effetto dell’adeguamento degli assegni all’inflazione. In rapporto al Pil, il costo totale delle pensioni arriverà al 16,2 per cento nel 2024, contro il 15,6 per cento del 2022 (da 297 a 340 miliardi in valori assoluti). Tutto questo senza neppure aprire il capitolo del superamento della legge Fornero vagheggiato dai leghisti. Secondo i calcoli dell’Inps, l’introduzione di quota 41 sarebbe costata 65 miliardi in 10 anni a partire dal 2023. Un peso insopportabile per le finanze pubbliche, che già faticano a tenere sotto controllo un debito pubblico che nei programmi del governo dovrebbe calare al 140,9 per cento del Pil dal 144,4 per cento di fine 2022.

 

L’unica soluzione praticabile sarebbe quella di destinare nuove risorse al capitolo previdenziale riducendo altre voci di spesa. Anche qui, però, i margini di manovra sembrano ridotti. Nel Def «non si forniscono elementi su come il Governo intenda procedere per rimanere all’interno del quadro delle compatibilità di bilancio», scrive la Corte dei conti. Nell’ultimo decennio la spending review, cioè l’eliminazione degli sprechi nel funzionamento della macchina dello Stato, non ha mai dato i frutti sperati. E non è certo possibile tagliare su sanità e istruzione che, anzi, hanno urgente bisogno di risorse supplementari. La spesa sanitaria italiana rimane «inferiore alla media europea, con conseguenze sfavorevoli sulla qualità dei servizi offerti», nota l’Ufficio Parlamentare di Bilancio. Eppure, esaminando le tabelle del Def, si scopre che questo capitolo di spesa già nel 2024 tornerà, in rapporto al Pil, sugli stessi livelli del 2019, prima della pandemia, con buona pace delle promesse di riforma e nuovi investimenti formulati al tempo del Covid.

 

Per fare il salto di qualità sarebbero più che mai necessari nuovi investimenti, ma ogni ipotetica riforma deve fare i conti con un debito che in termini assoluti non ha mai smesso di crescere. Con l’aggiunta dei tassi d’interesse da pagare sui Btp, pure destinati ad aumentare dal 3,7 per cento del Pil quest’anno fino al 4,1 per cento del 2024. Numeri, anche questi, che sgonfiano una volta per tutte le ambizioni di un governo che naviga a vista.