Camionisti, agricoltori, dipendenti di enti religiosi: decine di gruppi d’interesse e corporazioni si dividono decine di miliardi di agevolazioni. Che si sono moltiplicate nel corso degli anni. Adesso il governo promette una riforma, annunciata già da Renzi nel 2015 ma mai andata in porto

I produttori di tartufi? Presenti. E i dipendenti di enti e società controllati dalla Santa Sede? Eccoli. C’è posto anche per camionisti e sportivi dilettanti, armatori e lavoratori frontalieri. Tutti sulla stessa barca, un’arca di Noè affollata di viaggiatori a cui il Fisco di Roma ha cucito un abito su misura. Tra detrazioni e deduzioni, crediti d’imposta e regimi sostitutivi, sono milioni gli italiani che ogni anno, grazie a specifiche misure di legge, riescono a dare un taglio alle imposte da pagare.

 

L’elenco di sconti ed esenzioni è lunghissimo, un ginepraio gigantesco che si è esteso a dismisura nel corso degli anni, spesso con l’unico obiettivo di accontentare lobby e clientele varie. L’ultimo rapporto, appena pubblicato da una speciale commissione del ministero dell’Economia (Mef), ha censito ben 626 provvedimenti diversi, con un aumento di oltre il 40 per cento rispetto al 2016, quando la lista delle agevolazioni fiscali si era fermata a quota 444. La torta continua a lievitare. Nel 2022, lo Stato ha rinunciato a incassare 128 miliardi per effetto di quelle che gli specialisti della materia definiscono tax expenditures, quasi 30 miliardi in più rispetto agli 89 miliardi del 2018. Molte di queste misure di legge sono ormai diventate familiari a platee amplissime di contribuenti. È il caso delle detrazioni delle spese mediche, che costano alle casse pubbliche più di tre miliardi di euro l’anno, mentre le riduzioni d’imposta sugli atti di compravendita della prima casa valgono oltre un miliardo.

 

Con l’andar del tempo, però, i sussidi si sono moltiplicati ed è ormai evidente che vengono spesso utilizzati «per finalità politiche e di scambio con i vari gruppi di interesse», come si legge nelle prime pagine del rapporto di governo. In altre parole, ogni anno l’immenso catalogo delle cosiddette spese fiscali si arricchisce di leggi e leggine studiate per favorire un numero ristretto di beneficiari oppure nel tentativo di favorire l’emersione di redditi non dichiarati, con risultati, alla fine, men che modesti. Ha fruttato ben poco, per esempio, la norma creata ad hoc per tassare gli insegnanti che danno ripetizioni, incentivati a dichiarare i loro guadagni extra da un prelievo molto inferiore a quello ordinario dell’Irpef. La legge di bilancio del 2019 ha infatti istituito un’imposta unica del 15 per cento sulle somme ricevute da «docenti titolari di cattedre nelle scuole di ogni ordine e grado» come compenso per lezioni private. Compensi che nella quasi totalità dei casi vengono ancora incassati in nero.

 

Una novità di quest’anno, invece, è la tassazione agevolata, con prelievo del 5 per cento, sulle mance dei camerieri di alberghi, bar e ristoranti. Lo sconto previsto per legge rispetto alle consuete aliquote Irpef dovrebbe incentivare l’emersione di questi guadagni, che di solito restano sconosciuti al Fisco. Serve tempo per valutare l’efficacia reale di un provvedimento che però, secondo molti esperti, rischia addirittura di trasformarsi in un incentivo al nero. In pratica, l’imprenditore disonesto potrebbe far passare come mance per i dipendenti una quota degli incassi non dichiarati, che verrebbero quindi tassati con il mini-prelievo al cinque per cento. Insomma, l’aiuto pubblico finirebbe per incentivare l’evasione.

 

Questo è un caso limite, certo, ma suona come l’ennesima conferma che la macchina miliardaria dei sussidi fiscali gira a vuoto e finisce per alimentare sprechi e iniquità. Il rapporto a cura degli esperti del Mef segnala per esempio che l’importo medio delle agevolazioni risulta «molto contenuto». Più della metà delle singole spese fiscali ha un costo per lo Stato inferiore ai dieci milioni. Benefici e vantaggi sono distribuiti su una platea vastissima di cittadini che a volte si spartiscono poche decine di euro ciascuno. Una situazione che non ha eguali negli altri grandi Paesi europei. E allora, con l’obiettivo di ridurre la spesa e allineare l’Italia ai partner Ue, andrebbe avviata una riforma complessiva, come suggerisce la commissione governativa. «Operazioni settoriali o “voce per voce”, avrebbero effetti molto parziali e rischierebbero di essere inefficaci», si legge nella relazione. Finora però tutti i tentativi di semplificare l’intreccio di norme sulle spese fiscali sono andati a vuoto.

 

Già nel 2015, l’esecutivo di Matteo Renzi aveva annunciato un intervento per «riformare» l’intero sistema. E il riordino delle tax expenditures era citato anche nel programma di governo di Giuseppe Conte, quello in versione giallorossa del 2019. L’esplosione della pandemia ha cambiato le priorità. In tempi di Covid, il welfare è stato gestito a suon di sussidi e nell’estate del 2020 si è messa in moto anche la macchina del Superbonus per le ristrutturazioni edilizie, con un costo per le casse pubbliche che a novembre del 2022 ammontava a 99 miliardi di euro, secondo quanto riferito in Parlamento dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti.

 

Adesso però, con la fine dell’emergenza, la riforma delle spese fiscali potrebbe contribuire a racimolare svariati miliardi da destinare ad altre voci del bilancio, come le pensioni o il lavoro. In cantiere c’è anche la revisione delle aliquote dell’Irpef, che potrebbero ridursi fin da subito da quattro e tre, accorpando quelle intermedie, oggi al 25 e al 35 per cento, in un unico scaglione con prelievo al 27 o al 28 per cento. Siamo ancora lontani dalla flat tax (una sola aliquota uguale per tutti) promessa dal centrodestra, ma anche questo prima parziale riforma costerà miliardi, almeno quattro, forse cinque, secondo studi e simulazioni che circolano in ambienti della maggioranza di centrodestra. E allora, per finanziare la manovra sull’Irpef senza portare acqua al mulino del debito pubblico, il governo potrebbe riaprire il capitolo delle tax expenditures.

 

Il dossier è sul tavolo del viceministro dell’economia, Maurizio Leo, il tributarista romano a cui Giorgia Meloni ha affidato la riforma del Fisco: Una riforma «organica», come l’ha definita Leo, che dovrebbe prendere forma già in primavera con la presentazione in Consiglio dei ministri della legge delega. Non è solo una questione di numeri, però. Per dare un taglio netto al lungo elenco degli sconti sulle tasse, l’esecutivo dovrà affrontare le prevedibili proteste di lobby e categorie professionali fin qui beneficiate dalle agevolazioni previste per legge. La partita, quindi, è ad alto rischio politico. Per capirlo basta ricordare che cosa è successo nelle prime due settimane dell’anno, segnate dalle proteste contro l’aumento del prezzo dei carburanti per effetto della mancata proroga del taglio delle accise. Per la prima volta dall’inizio del suo mandato, Meloni ha dovuto far fronte a un calo di consensi nel Paese. Proprio gli sgravi sulle accise pesano per svariati miliardi sui costi complessivi delle spese fiscali. Vale per esempio oltre un miliardo l’anno lo sconto garantito agli autotrasportatori, che possono così acquistare gasolio a prezzi ridotti. Un altro miliardo serve a garantire una mini-accisa sui «prodotti energetici» (benzina compresa) utilizzati nei «lavori agricoli e assimilati».

 

Togliere agevolazioni come quelle appena citate significa colpire interessi forti, con prevedibili conseguenze in termini di voti. Ma la lista dei privilegiati è lunghissima. Ci sono micro-sgravi come l’Iva al cinque per cento sui «tartufi freschi o refrigerati» oppure l’esenzione totale dall’Irpef garantita agli apicoltori che vivono in comuni montani. Anche le mance ricevute dai croupier dei casinò pagano imposta solo sul 25 per cento del totale dichiarato. Spiccioli, nella gran massa dei favori fiscali. Ben più pesanti in termini di costi per lo Stato si sono invece rivelate norme come quella sul “Patent Box”, che ha permesso a centinaia di imprese di beneficiare di una tassazione ridotta sui redditi legati all’utilizzo di brevetti, disegni o software protetti da copyright.

 

L’agevolazione serve a promuovere la ricerca e vale circa 700 milioni l’anno. Niente Irpef anche per i dipendenti italiani di enti o società controllate dal Vaticano. Un privilegio che risale addirittura ai Patti Lateranensi del 1929 e da allora è passato indenne a ogni riforma, compresa di certo anche la prossima. Con la benedizione della Santa Sede.