È diminuito il numero dei grandi gruppi capaci di agire nello scenario economico mondiale

Finita l’era delle Partecipazioni statali non si può fare a meno di constatare che è notevolmente diminuito il numero dei grandi gruppi capaci di agire nello scenario economico mondiale.

 

Si è creato un vuoto incolmabile, indipendentemente dalla qualità del nostro apparato produttivo che conta imprese di primario standing. Sono venuti meno quei centri decisionali in grado di pilotare processi e innovazioni a carattere globale in cui si sommi la qualità della ricerca di base e applicata con la managerialità. La triste vicenda di Alitalia ne costituisce la cartina di tornasole, al pari di quella Telecom spa e dell’Ilva spa, tanto per nominare le più significative. L’ingloriosa storia della Sip meriterebbe di essere studiata senza veli da parte di un qualificato team di esperti, come è stato fatto, per esempio, per la Terni, l’Ansaldo e la Banca commerciale. Questa amara riflessione viene fuori dalla lettura dei recenti fatti su Telecom/Tim, venuti alla ribalta dopo le discutibili privatizzazioni degli anni ’90.

 

A quei tempi, molti imprenditori del capitalismo industriale si sono buttati nell’acquisto della Telecom, ricorrendo quasi esclusivamente all’indebitamento finanziario. L’acquisto, in altre parole, fu fatto con inadeguate immissioni di capitale fresco, considerando basso il rischio industriale. Telecom, infatti, possedeva un’impresa leader nella telefonia mobile, la Tim, che era un formidabile generatore di cash flow.

 

Non casualmente si arrivò a far incorporare la Tim spa da Telecom spa. In quel modo si sostenne che si sarebbe potuto costruire una nuova Telecom spa, dotata di cassa sufficiente per pagare il servizio del debito finanziario. I discorsi, però, non fecero farina. La Telecom è passata infinite volte di mano. Ora siamo all’ultimo miglio e ritorna di attualità la Tim.

 

L’offerta non vincolante da parte di un fondo americano per l’acquisto della rete di Tim potrebbe far incassare a Telecom 20 miliardi di euro sufficienti a neutralizzare l’indebitamento finanziario. La Telecom, infatti, vive una sorta di catalessi industriale, sancita dai litigi tra il socio di maggioranza relativa Vivendi e gli altri soci, tra cui la Cassa depositi e prestiti.

 

Il governo deve affrontare un dossier bruciante. Non casualmente il ministro dell’Economia, nel commentare il dossier che tocca un’infrastruttura strategica, ha teso a ribadire che «sarà necessario capire come verrebbero garantiti gli interessi generali».

 

La vicenda della Telecom, purtroppo, è lo specchio dell’impoverimento strutturale della nostra base produttiva per l’inadeguata efficacia di grandi gruppi nei settori trainanti dell’innovazione, intesa in senso shumpeteriano. Abbiamo una serie di imprese che sono dei veri e propri fiori all’occhiello, leader nel mondo, come testimonia l’andamento dell’export. E, tuttavia, non abbiamo la capacità per far fare a queste importantissime imprese il salto di qualità in modo che diventino dei grandi gruppi, capaci di interagire con la galassia degli operatori globali.

 

Dato che appare ormai acclarato come l’intervento dello Stato non sia più il nemico del mercato ma il suo supporter, credo che nel Paese e nel Parlamento si debba riprendere a discutere il tema della programmazione economica e della politica industriale al fine di individuare azioni e politiche che consentano, anche alle medie imprese leader, di avere la possibilità di diventare degli operatori globali, in un quadro di politica industriale europea, tutta da costruire.