Potrebbero saltare miliardi per le fonti rinnovabili, per la mobilità sostenibile e poi tanti piccoli progetti. Rivedere il Piano di aiuti europeo non è impossibile, ma richiede competenze e un clima di fiducia reciproca in sede di trattative

A rischio i 23,8 miliardi per le fonti rinnovabili, da sempre un callo dolente per la destra. Sotto esame i 31,5 miliardi per le infrastrutture della mobilità sostenibile, punto d’insofferenza per chi vuole rallentare l’arrivo dell’auto elettrica. E poi i 155 milioni per il “Capacity building degli operatori culturali per gestire la transizione digitale e verde” gestiti dalla Direzione creatività contemporanea del ministero della Cultura, che solo a sentirla nominare alla Meloni viene l’orticaria. Per non parlare dei 300 milioni per Cinecittà su cui il ministro Franceschini aveva fatto una strenua battaglia. Ma anche sui 2,7 miliardi per i borghi e i “piccoli siti culturali” il nuovo governo avrebbe, a sentire le voci degli ambienti del centrodestra, qualcosa da ridire.

 

Il Pnrr è in gioco. O almeno lo sarà se diventerà realtà uno degli slogan più roboanti e insistenti fra quelli con cui Giorgia Meloni ha vinto le elezioni: rivedere, anzi “riscrivere”, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, il maxiprogetto europeo da 191 miliardi di investimenti con cui l’Europa ci sta aiutando a riprenderci dalla crisi pandemica. Al quale il governo ha aggiunto “di tasca propria” il Piano nazionale per gli investimenti complementari, con risorse aggiuntive pari a 30,6 miliardi.

 

Più di 220 miliardi da spendere da qui a fine 2026, «troppi e troppo in fretta», riconosce l’economista Tito Boeri. «In realtà qualcosa da rivedere ci sarebbe», spiega Andrea Boitani, economista della Cattolica. «Tutta la parte degli investimenti in opere pubbliche, più della metà del totale per oltre 100 miliardi, ha un problema: è stata scritta a fine 2020, quando c’era da rilanciare l’economia schiantata dai lockdown (in quell’anno il Pil italiano è sceso del 9%, ndr) e l’inflazione era a zero. Oggi è schizzata al 9% e gli aumenti dei costi sono esponenziali. Cemento, energia, trasporti, cavi di rame, tondini di ferro, tutto costa di più per lavori che per definizione sono pluriennali». Le clausole di revisione prezzi sono sostanzialmente scomparse dal nostro ordinamento dai tempi di Tangentopoli, «ma che qualche revisione debba esserci visto che tutte le materie prime sono lievitate, con punte inverosimili del 3 o 400%, e questo negli ultimi due anni, è giusto e logico. Altrimenti c’è il rischio che si blocchi tutto».

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Senonché gli agitprop di Fratelli d’Italia non sono mai scesi in tali dettagli di buon senso, ritenendo più efficace “sparare nel mucchio” del Pnrr. Adesso pare che la Meloni “ragionante” del post-voto stia rendendosi conto che bisogna concentrare solo sull’aspetto rincari gli interventi sul Pnrr. Spiega l’economista Mario Baldassarri, presidente dell’Istituto Adriano Olivetti di Ancona, la scuola di formazione manageriale fondata nel 1967 da Giorgio Fuà: «Il problema dei rincari riguarda tutta l’Europa. Al conto totale dell’intero piano NextGenEu da 750 miliardi nei 27 Paesi, mancano già per l’inflazione e per gli aumenti iperbolici dell’energia ben 300 miliardi». Ma chi dovrebbe metterli sul tavolo? «La via più lineare è una ristrutturazione finanziaria dell’intero NextGen che adegui i progetti ai costi, e magari allunghi le scadenze almeno fino al 2028. Ci sarebbe il tempo per completare molte delle opere finanziate e chiudere la partita delle rivalutazioni, nonché per emettere i nuovi eurobond destinati appunto a integrare il piano».

 

Ecco cosa potrebbe chiedere il governo italiano, anziché elucubrare su chissà quali revisioni complessive. Le quali provocherebbero solo l’effetto - come ha detto senza mezzi termini Ursula von der Leyen - di precluderci, almeno temporaneamente, le prossime tranche del Pnrr. Il piano peraltro già ha fatto sentire i suoi effetti positivi, come prova la crescita del 6,6 per cento l’anno scorso. Merito dell’anticipo da 25 miliardi versato da Bruxelles nell’agosto 2021 che è servito a completare 106 progetti entro la fine di quell’anno. Le successive tranche hanno cominciato ad essere legate agli adempimenti, cioè riforme e revisioni procedurali, scadenzate nel tempo. Dato che il governo Draghi è stato nei tempi previsti, è arrivata nell’aprile 2022 la tranche da 24,3 miliardi riferita ai 51 obiettivi conseguiti nella seconda metà del 2021. Infine, pochi giorni fa, è stata versata nel conto corrente del Mef quella di agosto da 24,1 miliardi, come “premio” per aver centrato i 45 adempimenti del periodo gennaio-giugno di quest’anno. Ora la partita si complica perché, oltre a risolvere la grana dei rincari, il governo italiano non deve perdere la battuta e rendere operative le riforme già annunciate: senonché leggi come quella sulla concorrenza (con le irrisolte questioni di balneari e tassisti) e il fisco, sono rimaste impantanate nell’ultima fase di Draghi per iniziativa proprio delle destre di governo (Lega e Forza Italia): ora Fratelli d’Italia dovrebbe miracolosamente imprimere una volontà politica per sbloccarle. E intanto, entro fine anno, risolvere questioni della portata di 8.764 assunzioni nella Giustizia o dell’upgrading dell’Agenzia nazionale per la cybersicurezza.

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Il tempo stringe anche per la questione centrale, gli adeguamenti dei costi. Secondo l’Ance, ci sono diffuse perdite nei 23mila cantieri aperti, con 160 miliardi di investimenti in corso o già stanziati fra quelli del Pnrr e gli altri lavori “normalmente” avviati. Il governo Draghi ha previsto già dal primo decreto aiuti - pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 17 maggio 2022 - un accantonamento di 3 miliardi per le imprese impegnate nei lavori e alle prese con gli extracosti. C’era una precisa ripartizione: 1,5 miliardi per le opere già in corso e già aggiudicate, altrettanti per quelle che dovranno presto andare a gara. Visto che nella prima fase si sono mischiati lavori pubblici già previsti ed altri ex-Pnrr, era riservata una quota di 700 milioni espressamente per i lavori del Pnrr.

 

Il totale del decreto aiuti (compresi i ristori alle piccole imprese, alle famiglie meno abbienti e via dicendo) era di 15,2 miliardi. Il 2 agosto c’è stato poi il decreto aiuti-bis, convertito in legge in extremis dal Parlamento uscente: del totale (15 miliardi) sono destinati al “fondo revisione prezzi” 1.300 milioni. Infine, è arrivato il decreto aiuti-ter da 14 miliardi approvato dal CdM nell’ultima seduta prima delle elezioni e “consegnato” al nuovo Parlamento, dove non è ancora chiara la quota destinata alla revisione lavori. Per ora ci sono dunque 4,3 miliardi a disposizione per la revisione prezzi. Potrebbero non bastare, e allora il governo Draghi ha creato un ulteriore strumento, il “Fondo per avvio delle opere indifferibili” dotato per ora di 7,5 miliardi da utilizzare da qui al 2026 sempre per i rincari sui lavori in corso. L’importante, «è non avere la pretesa di riscrivere l’intero Pnrr, che è un regolamento direttamente esecutivo nel diritto interno - puntualizza il costituzionalista Giovanni Maria Flick - inserito in un pacchetto di interventi normativi in determinati settori». In teoria, sarebbe possibile che qualcuno sollevi questioni di legittimità su un punto, aggiunge l’ex presidente della Corte Costituzionale, «ma si aprirebbe un complesso contenzioso fra Consulta e Corte di Giustizia europea quale realisticamente mi pare improbabile che chiunque voglia sollevare».

 

Il crinale su cui viaggia qualsiasi revisione è stretto. «Il Pnrr mette a disposizione risorse per investimenti nel settore delle infrastrutture che sono mancate per decenni», ricorda Pietro Salini, Ceo di Webuild. «È la nostra opportunità e il suo impianto e le scadenze vanno rispettate». In ogni caso, «per avviare e condurre una trattativa come la revisione del Pnrr - osserva l’economista Innocenzo Cipolletta - occorrono persone in possesso non solo della lucidità necessaria e delle capacità negoziale, ma della competenza tecnica, della conoscenza dei complessi meccanismi finanziari pubblici, della credibilità internazionale del caso. Possiamo solo sperare che dai quadri del centrodestra emergano risorse del genere». È anche una questione di tempi.

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L’articolo 21 del regolamento del Pnrr (approvato dal Parlamento italiano nel febbraio 2021), quello che parla di revisioni per circostanze straordinarie e oggettive «prevede che il governo presenti alla commissione una richiesta ben articolata e motivata di modifica del Pnrr, e già non ci vogliono due giorni», riprende Flick. «Le modifiche devono essere motivate dall’impossibilità di realizzare in tutto o in parte il piano». La commissione acquisisce la richiesta e se la ritiene adeguata la presenta al Consiglio europeo entro due mesi. O forse più: «Se necessario - recita l’art. 21 - lo Stato interessato e la commissione possono convenire di prorogare tale termine di un periodo di tempo ragionevole». Quando il Consiglio riceve finalmente la proposta, ha a sua volta un mese di tempo per pronunciarsi. Dopodiché la modifica dovrebbe diventare esecutiva: se però ancora la commissione o lo Stato ritengono incongrua la decisione, hanno un altro mese di tempo per presentare appello. E si ricomincia. Inutile sottolineare, vista l’altissima discrezionalità che in ognuna di queste fasi hanno gli organismi comunitari, quanto siano essenziali il clima e la fiducia reciproca in cui si svolgeranno le trattative. Se ci si presenta con modi arroganti, le possibilità che la procedura vada avanti si assottigliano, se non altro per la crescente ostilità degli altri Paesi dell’Ue. Intanto i finanziamenti si fermano