Operai già pagati una miseria sono rimasti senza impiego e senza diritti. E una campagna internazionale cerca di portare l’attenzione sui loro casi

È una mattina di marzo 2020. Le operaie della fabbrica tessile Hulu Garment, in Cambogia, come ogni giorno prendono posto ai loro banchetti, illuminati dalle lampade al neon sotto il tetto di lamiera. Si siedono a cucire in questo alveare. La fabbrica produce abiti per Adidas. Ci lavorano 1.020 operai, la stragrande maggioranza donne. Ogni giorno scivola via identico. Ma quella mattina è diversa. I manager convocano le lavoratrici: spiegano loro che la pandemia da Covid-19 sta paralizzando il mondo, che la fabbrica non ha più ordini e che devono licenziare i lavoratori. «Dovete firmare questo documento, con l’impronta del pollice», spiegano, perché la maggioranza non sa né leggere né scrivere: «Se non lo fate, non potremo pagarvi il salario».

 

Firmano tutti. Senza accorgersi che in una riga del documento c’è scritto che stavano accettando di dimettersi. A oggi, stanno ancora aspettando in tutto 3,6 milioni di dollari. Il caso della Hulu Garment non è un episodio isolato: gli esempi sono tanti, mappati dagli attivisti della campagna “Pay your workers”, che vede uniti sindacati e organizzazioni per i diritti umani a livello mondiale. Chiedono sostegni immediati a lavoratori e lavoratrici tessili e una riforma del settore, a partire da Adidas. La mobilitazione globale andrà in scena dal 24 al 30 ottobre anche in Italia. Da Bologna, con una campagna di manifesti realizzati dal collettivo artistico Cheap, a Milano, Torino, Roma, Fidenza, Firenze, Trento.

 

La questione delle tutele nel settore tessile è annosa e globale e non riguarda solo Adidas: ma è la pandemia a segnare un prima e un dopo. Perché se già lavoratori e lavoratrici erano sottopagati, con la chiusura di molte fabbriche ora sono alla fame 35 milioni di persone nel mondo. Una ricerca della Penn State University – Center for global workers’ rights calcola che il 10 per cento di chi lavora nel tessile con il Covid-19 abbia perso il lavoro: una percentuale destinata a salire al 35 per cento con la crisi energetica. «Milioni di persone non ricevono lo stipendio da mesi e contraggono debiti per sfamare le proprie famiglie», spiega Deborah Lucchetti, presidente di Fair e coordinatrice della campagna nazionale Abiti Puliti: «Con la campagna Pay your workers vogliamo che le imprese, tramite un accordo vincolante negoziato con i sindacati, garantiscano a lavoratori e lavoratrici tessili lo stipendio pieno per tutta la durata della pandemia e dunque, restituiscano il furto salariale per stipendi tagliati, tfr o indennità non pagate. E che le aziende aderiscano al fondo di garanzia che copra i rischi di eventuali fallimenti».

 

In Cambogia, secondo una ricognizione dei sindacati in 114 fabbriche, i lavoratori tessili che hanno prodotto indumenti per Adidas sono stati privati di circa 109 milioni di dollari di salari solo nel periodo tra aprile e maggio 2021, e in otto di queste fabbriche più di 30 mila lavoratori e lavoratrici stanno ancora aspettando gli stipendi arretrati da marzo a maggio per un totale di 11,7 milioni di dollari. In Turchia, quest’anno, alla Çevre Yolu Caddesi, i sindacati hanno denunciato che Arık Bey Tekstil Beysehir, uno strategico fornitore Adidas nel Paese, ha licenziato illegalmente nove lavoratori per intimidire gli altri ed evitare che aderissero alle sigle. «Per i lavoratori e le loro famiglie è una questione di sopravvivenza, Adidas invece, nonostante la pandemia, in un anno ha aumentato il fatturato del 15 per cento, passando da 18.435 miliardi di dollari nel 2020 a 21.234 miliardi di dollari l’anno dopo, e solo nel primo trimestre del 2021, la multinazionale ha guadagnato 650 milioni di dollari di profitti. E un ruolo decisivo nel generare guadagni è stato giocato dai ristori pubblici alle aziende».

 

Dal Sud del mondo al nostro Paese: a partire dal settore moda la campagna Abiti Puliti lancia la sua proposta per l’Italia sul salario dignitoso come diritto universale. Il tema è tornato di attualità perché il Consiglio dell’Unione europea ha appena dato il via libera finale alla direttiva sul salario minimo già approvata anche dal Parlamento Europeo. Di fatto, mettendo nero su bianco dopo mesi di dibattito che per legge le paghe non potranno scendere sotto un certo livello, in modo da garantire condizioni dignitose a tutti i lavoratori. La direttiva però non stabilisce quale debba essere questa soglia e non obbliga i singoli Stati a introdurre il tetto. Tra i ventisette Paesi comunitari, solo sei non hanno la paga base: tra questi l’Italia, perché la grande maggioranza dei lavoratori è coperta dai contratti collettivi. Il tema non appare nell’agenda del prossimo governo, visto che Giorgia Meloni ha esplicitato molto chiaramente che il salario minimo è «uno specchietto per le allodole», perché «la stragrande maggioranza di chi oggi è lavoratore dipendente nel privato è coperto da contratti collettivi nazionali che già di fatto prevedono un minimo salariale».

 

Partendo dai dati Eurostat del 2019, che rilevavano per l’Italia un tasso di rischio di povertà lavorativa per le persone di età compresa tra 18-64 anni dell’11,8 per cento (ovvero 2,8 punti al di sopra della media europea), il rapporto “Il salario dignitoso è un diritto universale. Una proposta per l’Italia, a partire dal settore moda” di Fair - Campagna Abiti Puliti individua come salario minimo dignitoso 1.905 euro netti mensili, ipotizzando una settimana lavorativa standard di quaranta ore settimanali. Ovvero, 11 euro netti all’ora. Utopia? «No», risponde Deborah Lucchetti: «Una volta chiarito quanto vale una paga adeguata bisogna che sia garantita a tutti i lavoratori, in Italia e all’estero. Come? Attraverso leggi che la impongano alle imprese. Per questo è nata la campagna Good Clothes Fair Pay, una petizione diretta alla Commissione europea tramite uno strumento specifico previsto dai Trattati, ovvero Iniziativa dei cittadini europei (Ice), con la quale si chiede che l’Unione approvi una legislazione ad hoc per introdurre salari dignitosi nel settore tessile. Se la petizione raggiunge almeno un milione di firme in un anno, entro il 19 luglio 2023, la Commissione europea sarà obbligata a valutare di promulgare questa legge proposta nella petizione. Per questo è importante firmare: e l’Italia è in prima linea, vista la sua tradizione manifatturiera. Possiamo farcela».