I costi dell’energia stanno mettendo in ginocchio imprese e famiglie in Europa, ma le difficoltà politiche e tecniche che ostacolano i tentativi di limitarli sono tante

Si fa presto a dire “price cap”, il magico “autosconto” che dovrebbe risolvere come d’incanto il problema del caro-energia, delle bollette folli, della carenza di gas. Se ne parla da otto mesi, è stato al centro di un’infinità di vertici, negoziati, incontri, ma non se ne è fatto nulla. Il prossimo appello è per il consiglio dei capi di governo di Bruxelles del 20 e 21 ottobre, l’ultimo al quale parteciperà Mario Draghi che per primo l’aveva proposto all’indomani dell’invasione dell’Ucraina. Ma l’esito è quantomai incerto, mentre dal fronte arrivano notizie sempre più inquietanti e i riflessi finanziari sono inevitabili.

 

Con il tempo, le proposte si sono moltiplicate, e oggi i price cap ipotizzati sono almeno una dozzina: si va dal tetto solo per il gas russo che però espone alla prevedibile ritorsione (già ampiamente sperimentata) della chiusura dei rubinetti da parte di Mosca, fino a quello “erga omnes”: «Allora però si porrebbe il non secondario problema di andare a spiegare ad algerini, azeri, libici e quant’altri, tutti Paesi dove siamo andati a chiedere con il cappello in mano più gas, che da domani vogliamo maggiori forniture ma le paghiamo meno», obietta Massimo Nicolazzi, docente di Economia delle fonti di energia all’università di Torino. «La presidente della commissione Ue ha ammesso che un intervento sul prezzo dovrebbe essere concordato con gli altri fornitori affidabili, a parte la Russia insomma». Per quanto riguarda il gas liquefatto, per le navi che lo portano in Europa niente di più facile che fare rotta altrove dove le porta la convenienza. «Parliamoci chiaro», avverte Giampaolo Galli, responsabile dell’Osservatorio sui conti pubblici fondato da Carlo Cottarelli. «Il price cap è qualcosa di più di una sanzione aggiuntiva, è quasi un atto di guerra che implica il venir meno agli obblighi contrattuali». Molti contratti delle aziende occidentali con Gazprom hanno scadenze lunghe (fino al 2036) e contengono clausole di adeguamento dei prezzi sulla base delle quotazioni.

 

C’è un nutrito pacchetto di proposte intermedie. Alcune puramente fantasiose come l’idea di intervenire informaticamente sulle piattaforme di scambio «che avrebbe l’unico effetto di creare un mercato parallelo», dice Nicolazzi. Altre più concrete: la via spagnola, dove il governo di tasca propria salda la differenza fra il prezzo ottimale e quello spot (percorso seguito ora dalla Germania che ha messo al servizio di consumatori e imprese 200 miliardi), o il progetto abbozzato da Ursula von der Leyen al vertice di Praga dell’inizio di ottobre, quello del “corridoio”. Se il mercato spot indica un prezzo accettabile, al centro del “corridoio”, si compra il gas. Se si discosta mettiamo del 5% al rialzo si ferma tutto e si ricorre al salvagente europeo, che però è tutto da studiare ed è argomento che più divisivo non si può.

 

L’idea è di utilizzare per le compensazioni il neonato fondo RePowerEu, un abbozzo del “nuovo recovery” alimentato sia con i 170 miliardi non utilizzati del NextGen (perché c’è chi non li ha voluti al momento di elaborare i Pnrr nazionali) che con le tassazioni sugli extra-profitti (quelli di chi produce energia con altre fonti ma la vende ai prezzi di quella del gas). Le polemiche fioccano: chi sostiene che con quei soldi si devono invece pagare le sovraspese per gli appalti del Pnrr, chi si oppone a dare altri fondi a chi già ne ha avuti a valanga (leggasi Italia), chi dice che basterebbero solo per pochi mesi visto l’andazzo della guerra e quindi andrebbero emessi nuovi eurobond con tutte le complicazioni del caso.

 

Non è finita. Una forma di price cap, ovvero di ridimensionamento e controllo sul prezzo finale, è il “decoupling”, lo spacchettamento fra l’energia prodotta con il gas e quella in modo diverso: Giorgia Meloni ne ha fatto un argomento elettorale invocandolo a gran voce come se fosse una sua scoperta. Il problema è che non è facile identificare presso un venditore di energia la fonte da cui questa è creata. Un abbozzo di decoupling peraltro inizia ad esserci in Europa: è stata appena varata una normativa Ue che impone agli operatori una dichiarazione delle fonti di generazione con le quote relative. Il successivo passo sarà l’attribuzione di valori di riferimento diversi. L’obiettivo di fondo resta comunque spingere i consumatori a scegliere fonti alternative a quelle fossili, quale appunto il gas, prospettando forme di razionamento energetico.

 

Al price cap si attribuiscono poteri taumaturgici perfino nei confronti della borsa merci Ttf di Amsterdam dove si formano i prezzi del gas, e della speculazione che vi si annida. La realtà è più complessa. «La situazione è talmente tesa e l’andamento delle quotazioni così imprevedibile - spiega Andrea Boitani, economista della Cattolica - che perfino gli speculatori ormai si tengono alla larga dal mercato di Amsterdam». È cruciale il ruolo delle “clearing house”, sorta di banche che operano sulla borsa olandese con la funzione di intermediarie fra compratori e venditori di gas. Sono 15 in tutta Europa: l’unica italiana autorizzata dalla Banca d’Italia è la Cassa di Compensazione e Garanzia, ora ribattezzata Euronext Clearing. La commissione Ue da tempo sta cercando di creare una clearing house europea nell’ambito del tortuoso cammino verso l’unione del mercato dei capitali. Senonché il Covid prima e lo sconquasso bellico dopo (quello dell’energia è uno dei mercati-campione su cui sta concentrandosi il lavoro di Bruxelles) hanno fatto rinviare qualsiasi piano.

 

Se ce ne fosse bisogno, c’è ancora una complicazione: la clearing house di riferimento, di gran lunga la maggiore, è da sempre quella di Londra, che svolge tuttora compiti di supervisione su tutte le “consorelle” europee. Ma dopo la Brexit è saltato il progetto comune e ci si è accordati per un definitivo divorzio nel 2025, dopodiché le casse di compensazione europee se la dovranno cavare da sole mentre la tempesta infuria sul mercato: «Il Ttf è un ganglio importante e integrato del sistema finanziario mondiale», riprende Boitani. «Come tutti i mercati, che utilizzano strumenti quali future e option, ha una funzione importante di stabilizzazione in tempi normali. Viceversa, i mercati possono diventare essi stessi destabilizzanti quando gli shock sono massicci e frequenti come oggi. Però serve attenzione al momento di congelare o superare il Ttf: l’esperienza della Lehman insegna che quando tocchi un tassello del sensibilissimo mosaico finanziario mondiale, diventa assai probabile che crolli tutto il sistema».