La rete in fibra ottica promossa dal precedente governo per cablare l’Italia e incentrata sull'azione di Enel è a un punto delicato. O entro l’anno arrivano i prestiti delle banche o si rischia il fallimento. Ecco perché

È passato poco più di un anno da quando, lo scorso 7 aprile 2016, Matteo Renzi annunciava da Palazzo Chigi il suo piano per cablare l’Italia intera e trasportarla nell’era digitale. Il perno del progetto era l’Enel, il colosso statale dell’elettricità, che uscendo dal naturale settore di attività avrebbe dovuto posare la fibra ottica sull’intero territorio nazionale, anche nei Comuni più piccoli. Da allora è nata una nuova società, battezzata Open Fiber, di cui Enel è azionista al 50 per cento, che nel giro di pochi mesi ha sconvolto più di quanto fosse possibile immaginare il mondo delle telecomunicazioni italiane e iniziato a litigare con cadenza quasi quotidiana con l’ex monopolista delle telecomunicazioni nazionali, Telecom Italia.

pen Fiber, infatti, è stata messa al centro dei programmi partoriti dal governo di Renzi e ereditati dal successore, Paolo Gentiloni. Ha comprato la più grande rete in fibra già esistente in Italia per la trasmissione di grandi quantitativi di dati, posseduta da Metroweb. E sta facendo incetta dei fondi pubblici predisposti per cablare le aree meno abitate del territorio nazionale, dove gli operatori privati non hanno interesse a farlo con risorse proprie.

Eppure, a distanza di quattordici mesi dall’annuncio di fronte alle telecamere, tanta grandeur sembra scontrarsi con qualche difficoltà di troppo. Al di là di Enel e dell’altra società pubblica individuata da Renzi per portare avanti il piano, la Cassa depositi e prestiti (Cdp), titolare del restante 50 per cento del capitale, nessun altro soggetto ha finora manifestato in modo esplicito l’intenzione di finanziare Open Fiber, che sta cercando i soldi necessari per completare i lavori promessi: circa 4 miliardi di euro, stando alle cifre - un po’ ballerine - che vengono di volta in volta fatte filtrare sui media.

«Le banche fanno la fila, stiamo trattando con quindici istituti diversi», ha detto al “Corriere della Sera” l’amministratore delegato Tommaso Pompei, facendo sfoggio di grande fiducia e fissando al prossimo autunno il momento in cui dovrebbe andare in porto il mega-finanziamento, che in azienda chiamano “jumbo”. Una rassicurazione importante ma che, tuttavia, non fuga ogni dubbio. Perché, in questo periodo, il rodaggio di Open Fiber si è rivelato più complicato del previsto e qualcosa nelle strategie iniziali non ha funzionato al meglio. I segnali di queste difficoltà arrivati all’esterno sono stati numerosi ma il più importante è giunto in prima persona dal ministro per il Mezzogiorno, Claudio De Vincenti. Il quale, domenica 17 giugno, si è spinto a proferire una minaccia davvero insolita: ha detto che il governo chiederà i danni a Telecom Italia, ora ridenominata Tim, se il gruppo telefonico controllato dal finanziere francese Vincent Bolloré realizzerà una sua rete veloce nelle aree più disabitate della Penisola, quelle dove vorrebbe farlo Open Fiber.

Sentire un ministro che minaccia di ritorsioni un’azienda privata che vuole investire è, in effetti, un paradosso in cui è davvero raro imbattersi. «Un attacco degno di un Paese dirigistico», «una richiesta inconcepibile», ha tuonato il numero uno di Tim, Flavio Cattaneo, sottolineando come il gruppo telefonico si muova con soldi privati, non con le risorse pubbliche di Open Fiber. Di più: gli avversari di Renzi e del governo hanno subito messo in evidenza l’impulso politico del piano per la fibra ottica, arrivato direttamente da Palazzo Chigi. E finanziato, nella sua parte iniziale, da due entità a controllo statale come Enel e Cdp, i cui vertici sono stati nominati da Renzi stesso.

Tutti riconoscono che Tim, prima dell’ingresso in scena di Open Fiber, procedeva a rilento nella realizzazione della banda ultra-larga, sfruttando al massimo la propria posizione di ex-monopolista per far navigare e lavorare gli italiani sulla vecchia rete in rame, considerata ormai superata per le crescenti necessità delle famiglie e delle imprese. Ma per i critici, una volta che Cattaneo è stato costretto a reagire e ha accelerato gli investimenti, il progetto di Open Fiber avrebbe perso ogni utilità e dovrebbe essere accantonato, per scongiurare il rischio di uno spreco di denaro pubblico.

Fare la tara alle accuse che le due parti si rivolgono, in realtà, non è facile, perché i piani di entrambe sono in divenire e il giudizio sul loro successo è necessariamente rinviato nel tempo. Dopo la sortita di De Vincenti, il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda ha cercato di raddrizzare la mira, precisando meglio i termini dello scontro: anche se nelle aree meno popolate Tim vuole raggiungere solo una piccola porzione degli abitanti, l’interferenza rischia di minacciare la tenuta dei conti di Open Fiber, che si basano proprio sul fatto che la rete di Enel-Cdp dovrebbe essere l’unica presente in quelle zone. Di qui la speranza di «non disperdere le risorse pubbliche» che sono state stanziate per finanziarne la costruzione, e che sono oggetto di apposite gare pubbliche.

Per comprendere i segnali di nervosismo del governo e i motivi dello scontro con Tim, si può partire dal pilastro che sorregge l’intera costruzione di Open Fiber, e cioè la rete di Metroweb. L’azienda era nata alla fine degli anni Novanta per cablare Milano e affittare la rete realizzata ai gestori di telefonia, in particolare a Fastweb. Da allora ha cambiato proprietari e perimetro di attività più volte ma la natura dell’azienda resta una: una straordinaria generatrice di profitti. Basta guardare il bilancio 2016. Lo scorso anno l’affitto a terzi della rete in fibra ottica ha permesso a Metroweb di realizzare ricavi per 61 milioni di euro, una bella fetta di quelli complessivi della società (87 milioni, undici in più dell’anno prima). I costi operativi e di gestione della rete sono piuttosto ridotti, per cui Metroweb ha chiuso il bilancio con un margine di guadagno stellare: 52 milioni di euro, il 60 per cento dei ricavi. Di qui due considerazioni. La prima è che, ogni anno, questo consistente flusso di risorse può essere reinvestito, per ampliare la rete in fibra e catalizzare i guadagni del futuro. La seconda è alla base del piano di Open Fiber: se si riuscisse a riprodurre questa struttura economica su base nazionale, ne verrebbe una portaerei, in termini di potenzialità d’investimento.

Tuttavia, uno dei problemi delle iniziative industriali che vengono concepite a livello politico, è che passare dalla teoria alla pratica è maledettamente difficile. L’anno scorso Open Fiber ha acquistato Metroweb, spendendo 714 milioni di euro. A vendere erano gli ultimi due tra i proprietari che si sono susseguiti nel tempo al vertice dell’azienda milanese, e che hanno realizzato cospicue plusvalenze. Il socio di minoranza era - attraverso una delle sue diverse entità - la stessa Cassa depositi e prestiti, che ha poi reinvestito in Open Fiber. Quello più importante era però F2i, un fondo privato dove la mano pubblica è comunque presente, attraverso varie forme.

C’è naturalmente la solita Cdp ma ci sono anche le fondazioni bancarie. Proprio la presenza della Cassa depositi e prestiti da un lato e dall’altro, sia quale venditore di Metroweb che come fondatore di Open Fiber e dunque compratore di Metroweb stessa, aveva fatto nascere l’ipotesi che pure F2i potesse reinvestire nel progetto per la banda ultra-larga i quattrini incassati. Anzi: il fondo guidato oggi dal manager milanese Renato Ravanelli aveva una vera e propria opzione per farlo: entro lo scorso gennaio avrebbe potuto acquistare il 30 per cento di Open Fiber da Enel e Cdp, aiutandole a sostenere l’impegno finanziario necessario per avviare i cantieri e allargando la base azionaria della startup. Qui è nato il primo intoppo: F2i ha lasciato passare il termine senza esercitare l’opzione. Per quale motivo? Nessuna delle due parti lo ha mai rivelato e nessun commento è stato rilasciato in merito. Si può fare solo un’ipotesi: agli occhi di Ravanelli e degli altri manager del fondo, il piano di sviluppo di Open Fiber non dev’essere risultato abbastanza convincente, o quanto meno coerente con i rischi che un fondo come F2i, aperto a numerosi soci privati, è disposto ad assumere.

C’è dunque un baco che rode la solidità finanziaria del progetto? I dubbi sono stati alimentati dagli stessi protagonisti. Francesco Starace, il numero uno dell’Enel che è il vero ideatore del piano proposto a Renzi e sposato dall’ex premier, lo scorso novembre aveva affermato che a Open Fiber non servivano altri investitori; in tempi più recenti Franco Bassanini, un ex ministro e politico di lungo corso che è stato scelto come presidente della società della fibra, ha fatto invece intendere che un partner sarebbe benvenuto e che anzi, gli interessati sarebbero «molti». Nel frattempo, tra le lungaggini burocratiche dell’acquisizione di Metroweb, le trattative fallite con F2i, i ritardi nei bandi per l’assegnazione dei fondi pubblici per posare la fibra ottica nelle aree sussidiate (il primo gruppo di cinque è stato firmato ufficialmente solo venerdì 16 giugno, per le zone meno densamente abitate di Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Toscana e Abruzzo-Molise), è arrivata la risposta di Tim. Il gruppo guidato da Cattaneo non ha soltanto accelerato i piani di costruzione della sua, di rete. Ma ha detto di volerla realizzare in autonomia anche nelle aree destinatarie dei fondi pubblici, comprese quelle dove Open Fiber avrebbe dovuto essere pronta a partire.

Nel breve, la mossa potrebbe avere un primo obiettivo tattico: mettere i bastoni fra le ruote al processo di concessione dei fondi pubblici da parte della Commissione europea. Sulla carta, infatti, la presenza di un investitore privato interessato a realizzare una propria infrastruttura farebbe venire meno il presupposto di un intervento statale, teso a colmare il “vuoto di mercato” e rendere connessi anche i territori più svantaggiati. Ma l’obiettivo di lungo termine è certamente più importante: se Open Fiber riuscisse a posare la sua rete in tempi rapidi, Tim rischierebbe di ritrovarsi in una posizione delicatissima, perdendo milioni di clienti. Di più: se riesce a gestire il passaggio della clientela verso una tecnologia di proprietà, Tim può sperare di affrontare progressivamente e nel tempo gli effetti contabili dell’obsolescenza della propria rete in rame, che in bilancio vale ancora diversi miliardi di euro ma che, in prospettiva, perderà via via valore, rischiando di generare pesanti perdite. Ecco il perché della reazione che l’azienda ha predisposto contro l’offensiva di Open Fiber.

Guardando con un occhio al rapporto con i clienti e con l’altro alle necessità del proprio bilancio, Cattaneo giura che le nuove offerte commerciali si basano su tecnologie altrettanto competitive in termini qualitativi ma più economiche e di semplice “upgrade” (miglioramento) di quelle attuali, perché la fibra ottica non arriva in casa, come può fare Open Fiber grazie all’uso dei nuovi contatori Enel, ma in strada, fino ai già esistenti armadi esterni ai condomini. Al di là della questione tecnica e degli effetti contabili, il succo è la difesa delle proprie posizioni: Tim ha paura che la fibra di Open Fiber, una volta piazzata, possa permettere ai suoi concorrenti di conquistare in maniera stabile e duratura i clienti, portandoglieli via. E così sta cercando di togliere alla startup quegli spazi di mercato che sembravano aperti fino a un anno fa, e sui quali la rete di Enel e Cdp puntava per crescere.

Ecco perché il fattore tempo è cruciale. Open Fiber ha fondi per 500 milioni che le servono per lavorare fino alla fine di questo 2017, e che le arrivano da un prestito che i soci Enel e Cdp le hanno concesso. Dopo, dovranno arrivare le nuove risorse che Pompei sta negoziando con le banche. Le indiscrezioni dicono che gli istituti più coinvolti in questa fase di colloqui sono Unicredit, Société Générale e Bnp Paribas ma i contorni delle trattative, dall’esterno, non è ancora possibile percepirli.
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Una questione determinante sarà capire se le banche saranno disponibili a organizzare un finanziamento complessivo, per l’intero piano di lavori, come l’amministratore delegato Pompei ha detto in una recente intervista, o se si limiteranno a rifinanziare il prestito fatto a suo tempo da Enel e Cdp. Come sempre, la questione finanziaria segue però quella industriale. L’azienda dovrà essere in grado di convincere i nuovi finanziatori che il proprio progetto regge, e che reggerà anche nel caso in cui Tim - il maggior gestore di telefonia fissa e traffico dati d’Italia - non diventasse mai sua cliente. Dovrà riuscire ad aprire e portare a termine il maggior numero di cantieri possibile, per dar modo agli operatori che utilizzano la sua rete - Vodafone e Wind, oltre ad altri più piccoli - di raggiungere i clienti con le rispettive offerte commerciali. E dovrà dimostrare che i propri obiettivi - un fatturato di 200 milioni di euro nel 2018, di un miliardo tra dieci anni - non sono cifre scritte sulla carta ma traguardi raggiungibili, che doteranno l’Italia di un’infrastruttura decisiva per trasportare l’enorme mole di comunicazioni che gli analisti si aspettano nel prossimo futuro, con la progressiva convergenza di telefoni, media, Web e televisione.

Per capire se le difficoltà iniziali sono state superate, e il piano di Renzi può andare avanti, il momento cruciale è dunque l’autunno, quando si vedrà se arriveranno i finanziamenti. In prospettiva, però, è difficile immaginare che lo scontro fra Open Fiber e Tim possa concludersi così, con i due concorrenti armati l’uno contro l’altro. Un indizio l’ha fornito lo stesso Franco Bassanini qualche settimana fa, quando ha detto che solo in dieci o poco più delle aree maggiormente popolate d’Italia ci sarebbero i margini di redditività necessari per sostenere due reti in fibra ottica. Può sembrare sorprendente che il presidente di una società che si appresta a cablare l’Italia in concorrenza con Tim esprima un pensiero così, e infatti il numero uno del gruppo telefonico Flavio Cattaneo è subito insorto contro la confluenza delle varie reti in un’unica infrastruttura nazionale, che ha definito «un esproprio». Tuttavia, viste le difficoltà che entrambi i concorrenti dovranno affrontare, l’impressione è che di quest’ipotesi si parlerà ancora a lungo.