Una vertenza in corso a Milano rivela come il patron della catena di supermercati riuscisse a ottenere licenze più grandi. Ve lo spieghiamo
All’inizio dello scorso autunno , quando venne aperto il testamento di
Bernardo Caprotti, l’attenzione dei più era rivolta al futuro dell’azienda che l’imprenditore milanese aveva fondato negli anni Cinquanta assieme ai fratelli Guido e Claudio. Esselunga è la seconda maggiore catena italiana di supermercati, dietro al gigante cooperativo Coop, e il suo anziano patron, scomparso il 30 settembre 2016, fino all’ultimo aveva lasciato in sospeso i futuri assetti di comando di un gruppo che dà lavoro a 22 mila persone.
PRECISOCHE LA REPLICA DI ESSELUNGA E LA NOSTRA RISPOSTAIl documento, rivelato il 5 ottobre, fugò ogni dubbio. Come le persone vicine alla famiglia si aspettavano, il controllo dell’azienda andò alla seconda moglie Giuliana e alla figlia dei due, Marina Sylvia. Le sorprese comunque non mancarono. Fecero sensazione i 75 milioni di euro alla segretaria, Germana Chiodi, così come la decisione di cancellare le donazioni previste alla Galleria di Arte Moderna di Milano, i cui esperti si erano resi colpevoli di non voler attribuire a Leonardo una testa di Cristo dipinta da un allievo del maestro rinascimentale, che Caprotti aveva acquistato all’asta. Insomma: chi sperava di trovare nel testamento dell’imprenditore gli indizi di una personalità incline ai colpi di scena era certamente accontentato.
Quel che non era possibile individuare nemmeno nell’ultimo atto di Bernardo era uno dei segreti del suo successo, che emerge invece oggi da un procedimento di cui ha dovuto farsi carico la Regione Lombardia .
Anche se il Gruppo Esselunga si sta allargando in tutto il Nord Italia, e in particolare in un territorio finora poco esplorato
come la Torino di Chiara Appendino, e ha inaugurato il primo supermarket di Roma beneficiando di testimonial illustri quali Pier Luigi Bersani e Luca Lotti, resta un fatto che la grande espansione vissuta negli ultimi anni della gestione di Caprotti ha avuto come fulcro la Lombardia. Quando a Milano sono state messe in vendita numerose aree abbandonate dalle fabbriche, Esselunga ne ha fatto incetta. Ancora oggi,
sono concentrati in Lombardia 93 dei 153 supermercati della catena (erano solo 128 appena dieci anni fa) e la densità maggiore si riscontra nella metropoli guidata dal sindaco Beppe Sala.
Una delle strategie attuate da Caprotti per questo sviluppo è venuta alla luce martedì 30 maggio, quando in una stanza al quarto piano del palazzo della Regione Lombardia si è svolto un incontro a cui erano convocati i tecnici delle istituzioni che si occupano di commercio, i rappresentanti dei negozianti, i sindacati. L’argomento della riunione aveva un carattere in apparenza burocratico: l’autorizzazione a trasformare un’area commerciale di vendita già esistente, portandola da media a grande.
L’indirizzo dell’area è a Milano, in via Pellegrino Rossi, a due passi dalla stazione della metropolitana di Affori. Si tratta di un Esselunga, naturalmente. Ma perché ampliare la licenza commerciale di un supermercato inaugurato soltanto quattro anni fa? Basta recarsi sul luogo perché il motivo diventi evidente. L’edificio che ospita il supermercato è già della misura definitiva, costruito così fin dall’origine, con due piani di parcheggi sotterranei che la mattina appaiono pressoché deserti. La sorpresa è all’interno: le casse sono lontanissime dall’ingresso; gli spazi sono in buona parte liberi. A metà, un cartello avverte la clientela che l’enorme area vuota che separa l’ingresso dagli scaffali è dovuta al fatto che quell’ambiente «al momento non è autorizzato alla vendita». È scritto proprio così, «al momento», come se i dirigenti dessero per scontato che si tratta di una lacuna temporanea.
Più large che mediumEcco il punto: negli anni passati a Milano, in via Pellegrino Rossi e in altri casi ben documentati, è stato consentito all’azienda di Bernardo Caprotti di
costruire supermercati di taglia large, quando le licenze commerciali sottostanti erano per strutture medie. Fin dall’inizio Esselunga sapeva che le misure, in seguito, sarebbero state portate alle dimensioni definitive, ben più grandi, come dimostra il fatto che le autorizzazioni edilizie erano state rilasciate per edifici più ampi rispetto a quanto previsto dalle licenze commerciali, e costruiti fin da principio per essere utilizzati in maniera integrale. Ai profani della burocrazia, la differenza tra grande e medio può sembrare poca cosa. Basta però scavare nei fascicoli delle autorizzazioni di alcuni di questi progetti per intuire gli interrogativi che una simile situazione proietta sul negozio di via Pellegrino Rossi e su altri casi simili.
In Lombardia c’è una linea di demarcazione netta che separa i centri commerciali di piccola o media dimensione da quelli grandi. È legata all’area di vendita. Sotto i 2.500 metri quadri per aprire le saracinesche basta un’autorizzazione del Comune. Sopra quella soglia la pratica diventa più complicata: serve l’ok della Regione, e si deve passare attraverso una “conferenza dei servizi”, un procedimento aperto dove tutti gli interessati possono intervenire per presentare condizioni, richieste, obiezioni. Bisogna coinvolgere i Comuni confinanti, le associazioni dei commercianti, i rappresentanti dei quartieri interessati. Il motivo è semplice: un megastore ha un impatto - sugli affari dei negozi di zona, sui cittadini, sul traffico, sui concorrenti - di gran lunga superiore rispetto a un supermercato più piccolo.
Può richiedere modifiche alle strade, misure per aiutare i negozi della zona a rinnovarsi e non essere costretti a chiudere, parcheggi. Di qui il discrimine dettato dalle norme, che per le grandi strutture fa aumentare i tempi d’autorizzazione delle licenze, i costi di costruzione, gli oneri di compensazione da pagare al Comune e alle altre istituzioni coinvolte. Fare come ha fatto Esselunga in via Pellegrino Rossi, aprendo prima un supermercato più piccolo per poi chiedere l’autorizzazione a ingrandirlo, non sana la differenza, perché l’esito di una procedura d’ampliamento è scontato, quello di una conferenza dei servizi per un progetto che parte da zero molto meno. Di qui lo stratagemma usato da Caprotti, di cui lui stesso era certamente a conoscenza, come mostra un documento di qualche anno fa.
Chi ha lavorato con Bernardo racconta che fosse dotato di un vero talento per capire dove un supermercato avrebbe funzionato e dove no. Sapeva che certe posizioni sono una fortuna e che altre rischiano di non diventare mai redditizie. È quindi con tutto l’orgoglio del caso che, il 21 febbraio 2011, l’imprenditore manda un appunto ai suoi dirigenti per rendere conto del sofisticato lavoro di intelligence effettuato per aprire un nuovo supermercato, sempre a Milano, in via Losanna. Lo chiama “progetto Bollicine”, perché l’edificio è nato dove prima c’era un vecchio stabilimento dell’acqua San Pellegrino. Anche lì, le casse sono poste inizialmente a metà del megastore appena inaugurato: «L’apertura al momento è parziale», ammette Caprotti, precisando subito che i metri quadri della struttura sono destinati a crescere: «Probabilmente diventerà un 2.500, la sua capacità massima è 2.800». Come faceva a saperlo?
L’azienda aveva cominciato a ristrutturare l’intera area, che comprende anche un palazzo di abitazioni e un parcheggio, senza presentare, almeno inizialmente, una domanda di ampliamento di un Esselunga originario, che occupava soltanto 1.003 metri quadri. I lavori erano partiti nel 2006 e dovevano terminare il 14 aprile 2010, quando era prevista la riapertura al pubblico. Pochi giorni prima della scadenza, il 23 marzo, la prima sorpresa. L’azienda chiede la proroga di un anno per terminare i lavori di ristrutturazione; qualche mese più tardi, il 24 giugno, presenta poi «un’istanza di ridistribuzione della superficie di vendita già autorizzata con ampliamento da 1.003 a 1.500 metri quadri». Infine, l’autunno successivo, chiede l’aumento a 4.884 metri quadri di un ulteriore parametro, la «superficie lorda di pavimentazione», che in teoria non riguarda l’area dove piazzare gli scaffali con le merci. A quel punto il nuovo supermercato è pressoché finito e tutti, dai concorrenti ai consiglieri comunali, si rendono conto delle vere dimensioni. Vengono effettuate interrogazioni e ricorsi ma la risposta delle istituzioni è sempre la stessa: tutto regolare. Scrive Caprotti nel suo appunto dell’11 febbraio 2011: «Diamo con gioia il benvenuto a questo nuovo nato, che ci darà molte soddisfazioni; non senza dire grazie a tutti coloro che ci hanno messo tanto di sé, tanta intelligenza, tanta discrezione».
Compensare con il pesceCome possa un’amministrazione comunale non rendersi conto di quel che cresce sul proprio territorio, nonostante tutta la discrezione e l’intelligenza del caso, è una domanda interessante. Ma quel che colpisce di più è il poco che, a cose fatte, basta per sanare progetti in grado di cambiare la geografia di interi quartieri. È stato questo l’argomento della riunione nel Palazzo Lombardia del 30 maggio, relativa all’area di via Pellegrino Rossi.
Anche in questo caso Esselunga ha costruito l’intero edificio sulla base di una licenza commerciale precedente, prima di 1.500 metri quadri, poi salita a 2.500. Il Comune non ha avviato una specifica pratica di autorizzazione in quanto il progetto prevedeva che nella nuova struttura non ci fosse solo il supermercato, ma anche due negozi di merci che, in gergo tecnico, vengono definite “ingombri non immediatamente amovibili”. E cioè, una concessionaria d’auto e un’esposizione di arredamenti. Di queste due attività, nello spazio vuoto che separa l’ingresso dalle casse, a quattro anni dall’apertura non c’è traccia. Anzi, nella procedura avviata pochi mesi fa per portare la superficie di vendita a 3.821 metri quadri, Esselunga ha già prodotto l’impegno di entrambi i titolari a venderle i rispettivi spazi.
Più che una vertenza fra parti con interessi diversi, la conferenza dei servizi del 30 maggio - a cui L’Espresso ha potuto partecipare - si è così trasformata in un coro di benestare. L’ampliamento «non comporta consumo di nuovo suolo» e «non verranno costruite nuove cubature», è stato detto dai tecnici di Comune e Regione, senza sottolineare il fatto che l’edificio non dev’essere toccato perché è stato costruito di dimensioni eccedenti la licenza commerciale già in partenza. E ancora: «In fondo si tratta solo di un accorpamento di autorizzazioni già rilasciate», nonostante la concessionaria d’auto e l’esposizione di mobili esistano solo sulla carta.
Come detto, quello che colpisce maggiormente è però l’elenco delle compensazioni che l’azienda propone per sanare tutto. Ci sono contributi per 642 mila euro per opere di urbanizzazione. Ma le voci più sorprendenti sono altre.
Un «contributo di 60 mila euro» che andrà al Comune per «riequilibrare» l’impatto che il nuovo megastore avrà sul «piccolo commercio di vicinato». L’impegno a spendere 25 mila euro in due anni mediante accordi con artigiani e commercianti locali per «promuovere il territorio». La «disponibilità» a fornire ai clienti la spesa on line, il pagamento dei bollettini postali, le casse automatiche, la prenotazione di «pesce fresco già pulito». L’immancabile promozione di prodotti tipici lombardi.
Perché queste voci ricadano sotto i costi che dovrebbe sostenere Esselunga per farsi regalare la licenza, e non sotto i vantaggi che le permetteranno di mettere in ginocchio i negozi vicini, è uno dei segreti che solo la burocrazia comunale sembra poter custodire.
Aggiornamento 12 giugnoLa replica di Esselunga e la nostra risposta